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Il non detto del Governo Meloni nella lotta contro le morti sul lavoro

Raffaele Tovino • mar 25, 2024

L'informativa alla Camera della ministra Calderone ha tralasciato l'idea di insegnare la sicurezza a scuola

C’è un elemento positivo e uno negativo nelle parole pronunciate dalla ministra Marina Calderone alla Camera a proposito delle misure volte a garantire la sicurezza dei luoghi di lavoro: un’informativa, quella del governo Meloni a Montecitorio, che arriva a poco più di un mese dal crollo di una trave in cemento nel cantiere dell’Esselunga a Firenze, costato la vita a ben cinque operai.

Partiamo dall’elemento positivo. La ministra del Lavoro ha annunciato che lo stanziamento per il bonus malus dell’Inail salirà a 800 milioni. Significa che ci saranno più risorse a copertura della riduzione dei premi assicurativi per le aziende in cui si registri un calo degli infortuni o delle malattie.

E questo è sicuramente un bene per almeno due motivi.

Il primo: il governo Meloni dimostra di aver compreso come, per ridurre l’esorbitante numero di morti bianche, sia necessario seguire una logica incentivante più che punitiva. Il decreto Pnrr prevede sì un inasprimento delle sanzioni per le imprese che non rispettino le regole in materia di sicurezza e un rafforzamento del contingente ispettivo, ma anche misure volte a far sì che le imprese trovino più conveniente adeguarsi alla normativa.

Il secondo aspetto che lascia ben sperare, poi, sta nel fatto che l’incremento dei fondi a copertura del bonus malus dell’Inal conferma l’impegno del Governo e dell’Istituto sul fronte della lotta a infortuni, malattie e morti sul lavoro. Il bando Isi, che copre fino al 65% delle spese sostenute dalle imprese per progetti specifici, nella sua ultima edizione prevede uno stanziamento di 508 milioni: “Si tratta dell’importo più alto mai stanziato nelle 14 edizioni dell’iniziativa”, ha sottolineato la ministra Calderone nell’aula di Montecitorio. D’altra parte, dal 2010 a oggi, l’Inail ha destinato oltre tre miliardi e mezzo a fondo perduto per progetti di miglioramento dei livelli di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Senza dimenticare l’annunciato aumento, da dieci a 50 milioni, degli investimenti in formazione per la crescita delle competenze dei lavoratori e degli operatori della sicurezza.

Nell’informativa di Calderone, però, c’è un “non detto”. La ministra, che già all’indomani della tragedia di Firenze aveva evidenziato la necessità di insegnare la sicurezza sul lavoro nelle scuole, continua a sottolineare la necessità di individuare “tutte le forme più efficaci di intervento per contribuire alla formazione dei ragazzi”.

La titolare del dicastero del lavoro, però, non circostanzia la proposta né fa chiarezza sulla sorte della proposta di legge per fare della sicurezza del lavoro una materia di insegnamento nelle scuole secondarie: un’idea lanciata nell’estate del 2023 da Walter Rizzetto, parlamentare di Fratelli d’Italia e presidente della Commissione Lavoro della Camera, e puntualmente rimasta lettera morta. Quella norma è ancora in cantiere? Qualcuno, all’interno del governo Meloni, si è posto il problema di assicurare la partecipazione attiva non solo degli studenti ma anche degli insegnanti e dei genitori, l’utilizzo di strumenti didattici innovativi ed efficaci, l’insegnamento basato soprattutto su casi di vita reale, il coinvolgimento dei giovani nella gestione della sicurezza degli istituti? Su questi aspetti la ministra glissa elegantemente.

Su certe proposte, invece, di fare un passo avanti come è avvenuto su altri fronti. Il governo Meloni ha effettivamente previsto un aumento delle risorse, il rafforzamento degli ispettori e l’inasprimento delle sanzioni, ma continua a cincischiare sulla sicurezza del lavoro nelle scuole.

Il tempo delle parole e delle proposte generiche, però, è finito: ce lo ricordano non solo i cinque morti di Firenze, ma anche e soprattutto quelle oltre mille vittime registrate in Italia da dicembre scorso a oggi, con Basilicata e Puglia distintesi per un’incidenza di infortuni mortali ben al di sopra della media nazionale.


Autore: Raffaele Tovino 13 apr, 2024
Emanuele Orsini, il nuovo presidente di Confindustria, sa bene che, più degli investimenti, ora la priorità è assicurarsi lavoratori qualificati Gli investimenti? No, in tempi di Pnrr la vera sfida per le imprese è quella di trovare non tanto risorse quanto personale con le competenze necessarie per lavorare a nuovi prodotti in nuovi mercati. Emanuele Orsini, presidente designato di Confindustria, ne è certamente consapevole. Come è consapevole della necessità di una più forte istruzione terziaria professionalizzante, alternativa e parallela alle università tradizionali, e quindi di un sistema di Its che funzioni anche dopo che il Pnrr sarà stato archiviato e aiuti l’industria nazionale a essere maggiormente competitiva. Partiamo, come sempre, dai numeri. In Germania gli studenti inseriti nei canali professionalizzanti sono il 50% del totale, in Francia e in Svizzera il 30 e in Spagna il 10. In Italia, invece, registriamo la “miseria” di 30mila iscritti a fronte di un milione e mezzo di studenti universitari. Prima del Pnrr la situazione era persino meno incoraggiante, con soli 16mila iscritti e 20 Its in meno. I numeri attuali, dunque, dimostrano come il miliardo e mezzo di euro destinato dal Piano ai 146 Its abbia realizzato ciò che in precedenza non era nemmeno immaginabile. Può bastare? Ovviamente no, a meno che non si vogliano perdere le varie sfide alle quali il mercato chiama l’economia nazionale. La prima cosa da fare è rendere più solido il legame tra il mondo della scuola e l’istruzione terziaria professionalizzante. Il che significa istituire una direzione dedicata agli Its presso il Ministero dell’Istruzione, sperimentare la formula del 4+2 per legare le scuole tecniche e professionalizzanti agli stessi Its, fare in modo che questi ultimi si appoggino agli istituti superiori in modo da avere una fonte sicura di studenti. In questa prospettiva, è altrettanto importante rafforzare le economie locali. Molte regioni, infatti, non hanno grandi imprese o distretti industriali che possano guidare la fondazione degli Its e beneficiare della cosiddetta formazione su commissione. Ancora, in questo contesto, è indispensabile coinvolgere le associazioni professionali dei servizi e non solo quelle industriali visto che, al giorno d’oggi, molte specializzazioni riguardano proprio il settore dei servizi. Ma la prova forse più ardua comincerà tra due anni, dopo il 30 giugno 2026, termine entro il quale dovranno essere rendicontate tutte le spese coperte dal Pnrr. E si tratterà di una prova essenzialmente economica, nel senso che l’Italia dovrà trovare risorse adeguate per alimentare l’istruzione tecnica superiore. Sulle pagine del Foglio, Marco Leonardi ha fatto il conto della serva: oggi il sistema degli Its riceve 50 milioni l’anno dallo Stato e più di cento dalle Regioni; considerando necessari dieci corsi per 150 istituti e che ciascun corso costa approssimativamente 300mila euro, il finanziamento dovrà triplicare ad almeno 450 milioni l’anno. Lo Stato troverà queste risorse? Garantirà ai giovani italiani un’opzione professionalizzante di alto livello come le Fachhochschule tedesche, dove si formano lavoratori con capacità specifiche che rispondono alle reali esigenze delle imprese? Dimostrerà di voler tenere in piedi un sistema indispensabile per supportare l’industria nazionale e, in particolare, quella meridionale? È questa la sfida che la politica italiana dovrà vincere nei prossimi anni. Il Mondo del Lavoro
Autore: Raffaele Tovino 10 apr, 2024
Gli ultimi dati dell'Istat inchiodano l'Italia al ventunesimo posto nella classifica dei 27 Paesi dell'Unione Europea. Il tutto mentre le imprese hanno bisogno di personale sempre più specializzato Mentre le aziende hanno bisogno di personale sempre più specializzato (di mismath ne abbiamo parlato qui ), quello della formazione rimane un vero nodo irrisolto nel mondo del lavoro italiano. Secondo l’ Istat , il 31% (contro il 20,2% della media europea) dei giovani tra i 18 e 24 anni semplicemente la ignora. E se si allarga lo sguardo alla situazione generale, il tasso di partecipazione italiano è di ben 11 punti sotto la media europea: siamo ventunesimi nella classifica dei 27 Paesi della Ue, ben lontano dal 47% fissato tra gli obiettivi del Consiglio europeo per il 2025. Andando poi nello specifico: solo poco più di un terzo degli italiani d’età compresa tra 25 e 64 anni ha partecipato ad attività di istruzione e formazione: il 35,7% per l’esattezza. Dall’istituto di statistica, poi, si evince anche che, tra i giovani della fascia 18-21 anni, quasi il 21% non si forma e non lavora, percentuale che nel Mezzogiorno sale al 29,8%. Nel dettaglio, poi: il 4% della popolazione tra i 25-64 anni partecipa ad attività di apprendimento formale (corsi di istruzione e formazione scolastici, universitari, Afam, regionali e simili che rilasciano un titolo di studio o una qualifica professionale), contro il 6,3% della media europea. Il 34,1% partecipa ad attività di apprendimento informali (imparando da amici, parenti, colleghi, utilizzando libri, riviste specializzate, Pc, tablet, telefono) contro il 44% della media Ue. Ma, in Italia, anche il numero di ore dedicate complessivamente alla formazione è più basso rispetto alla media della Ue a 27 (133 e 144 rispettivamente). Questo, per effetto del minor numero di ore mediamente dedicate all’istruzione formale (405 rispetto a 512). Ci si domanda, allora: perché questa situazione? Una prima risposta potrebbe essere che, di fondo, manca una motivazione forte che spinga alla partecipazione: quasi l’80% dei 25-64enni che non si forma non ha interesse a farlo, mentre per gli altri i costi elevati rappresentano un ostacolo (nel 23,7% dei casi contro il 13,7% della media Ue a 27). Sempre nella fascia tra i 18 e i 24 anni, il tasso di partecipazione in attività formali si ferma al 49%, pari a ben 15,3 punti percentuali sotto la media europea. Se poi vogliamo confrontarci con la Germania, c’è davvero da imbarazzarsi: abbiamo accumulato 27 punti la differenza con i tedeschi che, non a caso, da tempo hanno sviluppato un sistema di formazione duale. Anche il tasso di partecipazione ad attività non formali (che si attesta al 42,2%) è comunque inferiore di 5,4 punti rispetto a quello europeo (e di ben 17,3 punti sotto la Germania). Last but not least: le attività di apprendimento formali sono quasi nulle dopo i 35 anni (solo l’1,3%) e anche quelle non formali crollano con l’uscita dal mercato del lavoro. In quest’ultimo caso, meno di un terzo degli italiani tra 35 e 64 anni partecipa ad attività di apprendimento non formale. Il Mondo del Lavoro
Autore: Raffaele Tovino 02 apr, 2024
Sette lavoratori italiani su dieci ricoprono ruoli potenzialmente esposti alla nuova tecnologia Su quali professioni l’intelligenza artificiale avrà l’impatto più forte? Molti esperti si sono posti questo interrogativo, visto che le nuove tecnologie renderanno obsoleti alcuni lavori, aumenteranno la domanda per altri e incideranno sulla produttività di altri ancora. E tutte le indagini sul tema hanno condotto allo stesso risultato: più a rischio sono le professioni in cui maggiore è l’utilizzo di abilità cognitive, con un grado di esposizione particolarmente elevato per le donne e per chi opera nel Centro-Nord. Secondo numerosi analisti, una professione che potrebbe subire le pesanti conseguenze dell’uso massivo dell’intelligenza artificiale è quella dell’avvocato. Quest’ultimo, infatti, ha tra i suoi compiti quello di ordinare le informazioni e, in tal senso, rischia di vedersi sostituito dalle nuove tecnologie. I legali, però, potrebbero essere in buona compagnia. Se si analizza la rilevazione della forza lavoro dell’Istat per il 2022, si nota come sette lavoratori italiani su dieci ricoprano ruoli potenzialmente esposti all’intelligenza artificiale: parliamo di 15 milioni di persone su un totale di oltre 21, con 7 milioni per i quali il rischio sarebbe particolarmente elevato. E i pericoli maggiori si riscontrano per i lavoratori con titoli di studio più elevati, cioè per chi opera nel settore dei servizi, nei vari comparti della pubblica amministrazione, nell’informazione e nella comunicazione, nelle attività finanziarie e assicurative, nell’istruzione e persino nella sanità e nei servizi sociali. E qui suona l’ulteriore campanello d’allarme: il rischio di essere travolti dall’intelligenza artificiale è ancora più alto per le donne che costituiscono il 37% della forza lavoro impiegata nei settori appena citati. Se si analizzano le regioni italiane, invece, emerge come il Centro e il Nord siano generalmente più esposti alla diffusione delle nuove tecnologie nel mondo del lavoro. È il caso soprattutto di Lazio e Lombardia, territori in cui è particolarmente consistente il peso di settori come assicurazioni e finanza, pubblica amministrazione, informazione e comunicazione. Senza dimenticare il comparto industriale dove la presenza di professioni legate a management, comunicazione, ricerca e sviluppo accresce i pericoli legati all’intelligenza artificiale. Per Lazio e Lombardia, dunque, l’esposizione è media rispettivamente nel 78,3 e nel 73,1% dei casi, mentre è alta nel 36,5 e nel 39,2; quanto a Puglia e Basilicata, i rischi sono medi rispettivamente nel 66,4 e nel 65,9% delle ipotesi, ma diventano alti nel 25 e nel 24. Che cosa vogliono dire questi dati, messi insieme in una interessante analisi condotta da Guido Baronio, Antonio Dalla Zuanna, Davide Dottori, Elena Gentil, Giovanni Linfante e Luca Mattei? Che l’intelligenza artificiale richiede la definizione e l’adozione di una strategia fin da subito. Magari i tempi saranno più lenti in Italia, che ha un tessuto economico caratterizzato da piccole e medie imprese e tanti lavoratori autonomi e da una bassa propensione all’innovazione, ma non c’è dubbio sul fatto che gli scenari descritti siano destinati a realizzarsi. Con una serie di conseguenze non solo in termini di diminuzione delle assunzioni per le figure professionali più esposte all’intelligenza artificiale, ma anche di andamento del reddito soprattutto nel settore dei servizi: alcuni lavoratori potrebbero risentire della diffusione delle nuove tecnologie attraverso una riduzione del salario, mentre altri potrebbero sfruttarle per incrementare la propria produttività e quindi la retribuzione. Ecco perché su questo tema è il caso di avviare una discussione seria e propositiva immediatamente. A meno che l’Italia, in particolare il Sud, non vogliano farsi cogliere impreparati da questa ennesima rivoluzione. Il Mondo del Lavoro
Autore: Raffaele Tovino 27 mar, 2024
Ieri incontro tra Governo e parti sociali: anche la patente a punti sembra destinata ad essere emendata Novità sul fronte delle nuove normative della sicurezza sul lavoro: Governo e maggioranza provano a calibrare meglio le nuove regole come quelle sancite dalla patente a punti e aprendo ai contratti più rappresentativi al posto dei contratti maggiormente applicati. Di questo si è discusso ieri nel corso di un incontro tecnico tra gli esperti di Ministero del Lavoro e parti sociali. In primis, si è presa in esame la possibilità di fare riferimento ai contratti comparativamente più rappresentativi al posto dei contratti maggiormente applicati. Possibile correzione, quindi, in vista sulla disposizione contenuta nel nuovo decreto Pnrr per frenare le esternalizzazioni di alcune attività al solo scopo di abbattere il costo del lavoro. Nell’attuale formulazione, la norma prevede che nei casi di appalto di opere o servizi è obbligatorio corrispondere ai lavoratori, anche di eventuali sub appaltatori, un trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dal “contratto collettivo nazionale e territoriale maggiormente applicato nel settore e per la zona il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto”. Quest’ultimo riferimento, pertanto, verrebbe modificato, e si introdurrebbe il richiamo ai “contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative”. È entrato nel merito, poi, il dialogo per l’applicazione della nuova patente a crediti: lo strumento debutterà strutturalmente, ma dopo la sua entrata in vigore sarà “attentamente monitorato” anche per valutare possibili correzioni. Per garantire la certezza del diritto, ad esempio, i crediti potranno essere tolti dopo sentenza definitiva salvo sospensione in via cautelare, tant’è che nei casi più gravi c’è il sequestro del cantiere. Nel meccanismo di recupero dei “punti”, poi, potrebbe entrare anche la formazione dei lavoratori. E altri emendamenti spingono anche per incrementare i punti iniziali della patente (oggi fissati in 30), e poter arrivare fino a 100 in base alla grandezza dell’azienda o ad altri criteri come, ad esempio, l’adozione di modelli di organizzazione e di gestione o un sistema di gestione per la salute e la sicurezza sul lavoro certificato. Un altro tema di discussione con le parti sociali, infine, ha riguardato le imprese in possesso di attestazione Soa: quest’ultime non sarebbero escluse dalla patente a crediti, ma potrebbero avere punteggi aggiuntivi. Le reazioni dei sindacati? In chiaro scuro, tant’è che il segretario generale della Fillea-Cgil , Alessandro Genovesi, ha confermato la mobilitazione e lo sciopero di 8 ore per il giorno 11 aprile.
Autore: Raffaele Tovino 21 mar, 2024
La retribuzione oraria è in calo: lo rivela Eurostat assegnandoci un -0,1% nell'ultimo trimestre del 2023 L’Italia è l’unico Paese dell’Unione Europea in cui la retribuzione oraria è in calo. Lo rileva Eurostat specificando che, da noi, nell’ultima parte del 2023, il costo orario del lavoro si è ridotto dello 0,1% mentre nel resto dell’Unione è aumentato del 4%. Stando sempre all’istituto di statistica, più precisamente, il costo del lavoro, nel quarto trimestre 2023, è aumentato del 3,4% nell’area dell’euro e del 4% nell’Ue rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente. Le due componenti principali del costo del lavoro sono i salari (e gli stipendi) e i costi non salariali. Nell’area euro i costi delle retribuzioni orarie e degli stipendi sono aumentati del 3,1%, mentre la componente non salariale è aumentata del 4,2%. Nella Ue i costi delle retribuzioni orarie e degli stipendi sono aumentati del 3,8% e la componente non salariale è aumentata del 4,6%. Ma quali sono i Paesi dove si sono registrati gli aumenti maggiori? Sono soprattutto quelli dell’Est. La Bulgaria, ad esempio, segna addirittura un +11,9% complessivo. Sta di fatto che deve recuperare ancora molto terreno: i Paesi in cui il costo del lavoro è maggiore tradizionalmente si trovano nell’area centro-settentrionale dell’Unione: Lussemburgo (50,7 euro all’ora), Danimarca (46,8) e Belgio (43,5). Sono invece minori in Ungheria (10,7), Romania (9,5) e proprio in Bulgaria (8,2). In Italia, l’unico Paese in controtendenza nell’ultimo scorcio del 2023, il costo medio del lavoro è pari a 29,4 euro all’ora, tutto sommato ancora in linea con la media europea.
Autore: Raffaele Tovino 18 mar, 2024
Perchè conviene a tutti abbandonare la cultura del "buttate le chiavi" e ripartire da un protocollo che finora ha clamorosamente fallito Partiamo immediatamente da un dato: il 68,7% dei detenuti che in carcere non lavora torna a delinquere. E questo valore tocca addirittura il 90% se si pensa che una parte dei reati commessi dai recidivi non viene mai scoperta. Quante sono, invece, le persone che, dopo aver lavorato regolarmente durante la detenzione, si mettono nuovamente sulla cattiva strada? Non più del 2%. Una statistica che andrebbe spiegata ai teorici del “buttiamo la chiave”, sempre pronti a sventolare cappi e manette, ma anche a quelle istituzioni che non sembrano comprendere l’importanza del lavoro in carcere. Un detenuto costretto a vivere in spazi risicati e il più delle volte fatiscenti, ad accontentarsi di due ore d’aria al giorno e a comunicare con i propri familiari dietro un vetro divisorio, finisce per incattivirsi e per interpretare la pena non come un’occasione ma solo ed esclusivamente come una punizione. I detenuti assunti da aziende che portano i propri reparti all’interno del carcere, invece, sono occupati per otto ore al giorno, guadagnano uno stipendio regolare, pagano le tasse, hanno la possibilità di sostenere economicamente la propria famiglia, sentendosi utili e allontanandosi dalla strada del malaffare. Questa differenza, peraltro piuttosto intuitiva, non sembra essere molto chiara in un Paese come l’Italia. Basta analizzare i numeri: su poco meno di 61mila detenuti, sono soltanto 700 quelli che lavorano in carcere e ai quali se ne aggiungono circa 1.700 che prestano servizio in regime di semilibertà. Lo scenario complessivo non è migliorato dopo l’approvazione del protocollo Cartabia-Colao che avrebbe dovuto portare all’inserimento di circa 10mila detenuti nel mondo del lavoro attraverso una serie di aziende disposte a insediare le rispettive attività nelle carceri. Nel solo settore della fibra ottica erano previste 1.553 assunzioni. Alla fine, i detenuti effettivamente ingaggiati sono stati tre. A ostacolare la svolta sono almeno due fattori. Il primo è quello al quale si è già accennato, cioè quella linea di pensiero secondo la quale la pena deve tradursi in una semplice punizione e nei confronti dei detenuti non bisogna usare alcuna pietà. È lo stesso orientamento che, in barba alla Costituzione e a una consolidata giurisprudenza, si oppone alla possibilità che i detenuti vengano effettivamente curati, che coltivino le proprie aspirazioni e la propria affettività, che possa essere insegnato loro un mestiere. Eppure tutti i dati statistici evidenziano come la pena, intesa come punizione, generi una spirale negativa. Il secondo ostacolo è la burocrazia. Emblematico il caso del carcere di Verona, dove per dieci anni hanno lavorato ben due aziende. Poi, a marzo 2023, il permesso è stato revocato perché alle imprese è stata riscontrata qualche irregolarità amministrativa. E lo Stato che cosa ha fatto? Anziché aiutare le aziende a mettersi in regola, le ha sbattute fuori. Con la conseguenza che oltre 150 detenuti sono stati costretti a tornare in cella, dall’oggi al domani, senza più un lavoro. E quindi non c’è da meravigliarsi se, a Verona, dall’inizio del 2024 si siano verificati già cinque suicidi. Sarebbe il caso, quindi, che le istituzioni consentissero alle aziende di operare in carcere e ai detenuti di lavorare. Per centrare l’obiettivo, però, occorre respingere, una volta per tutte, l’idea della galera come discarica sociale in cui “smaltire” persone plurisvantaggiate con dipendenza da alcol, droga e gioco o affette da problemi psichiatrici o i migranti giunti in Italia a bordo dei barconi. E, nello stesso tempo, bisognerebbe capire e far capire quanto il lavoro in carcere faccia bene non solo a chi sta dentro, ma anche a chi sta fuori.
Autore: Raffaele Tovino 14 mar, 2024
Gli ultimi dati Istat sull'occupazione inchiodano il Mezzogiono ben 21 punti sotto il Nord. Ma persiste anche un enorme divario di genere: lavorano il 53% delle donne e il 70% degli uomini Ci sono sempre più due Italie del lavoro. Nel Mezzogiorno, l‘occupazione si ferma al 48,2%, ben 21 punti in meno rispetto al Nord dove è al 69,4%. Ma non solo: le donne che lavorano sono il 53,4% contro il 70,8% degli uomini. Lo si evince dai dati Istat del quarto trimestre 2023 sebbene si chiuda con un bilancio positivo. Gli occupati, infatti, sono aumentati di 481 mila unità (+2,1%) arrivando a toccare quota 23 milioni e 580 mila. I disoccupati, invece, sono scesi di 81 mila unità (-4%), sotto la soglia dei 2 milioni. Il tutto, mentre si sono registrati 468 mila inattivi in meno. In questo modo, il tasso di occupazione è salito al 61,5% (+1,3 punti percentuali in un anno) e la disoccupazione è scesa al 7,7% (-0,4 punti). “Al di là dei numeri, le difficoltà permangono – ha commentato la ministra del Lavoro, Marina Calderone – Ma i nuovi dati dell’Istat ci confortano nella direzione intrapresa da questo governo a favore di lavoratori e imprese”. Se i dati generali sono positivi, come accennato, analizzando in dettaglio i dati del mercato del lavoro, emergono forti squilibri sia tra le varie aree del Paese che di genere. A livello territoriale, il Mezzogiorno che pure nel 2023 ha mostrato l’aumento più consistente del tasso di occupazione (+1,6 punti sul 2022, arrivando al 48,2%), resta staccato di ben 21 punti dal Nord. Il Settentrione, a sua volta, ha messo a segno una crescita di 1,3 punti toccando il 69,4% mentre il Centro è al 65,9% (+1,1 punti). Il tasso di disoccupazione nelle regioni meridionali (14%) è circa tre volte quello del Nord (4,6%) col Centro sopra al 6. Ma non è ancora tutto: il divario, fortissimo, riguarda anche le donne il cui tasso di occupazione a livello nazionale si ferma al 53,4% (ed al Sud crolla al 37,2) contro il 70,8% degli uomini. I casi di scuola, a tal proposito, si rintracciano a Verona e Messina: nella città scaligera, c’è un tasso di occupazione femminile del 70,1%. Sullo Stretto, invece, del 29,7%. Altro dato dissonante è quello che riguarda i Neet, i giovani che non studiano e non cercano lavoro: essi restano sopra quota 2,1 milioni, anche se nel 2023 sono diminuiti per il terzo anno consecutivo (-468 mila, -3,6%). Di positivo invece c’è il fatto che la crescita dell’occupazione l’anno passato ha interessato soprattutto i dipendenti a tempo indeterminato, con 491 mila unità in più (+3,3%) e gli indipendenti (+62 mila, +1,3%) tornati sopra i 5 milioni (dato Confesercenti ). Questo, mentre risultano in calo le forme di lavoro più precarie come i dipendenti a termine, con 73 mila unità in meno (-2,4%). In particolare, nel quarto trimestre 2023, gli occupati rispetto al trimestre precedente sono aumentati di 144 mila unità a seguito della crescita dei tempi indeterminati (+145 mila) e della sostanziale stabilità di dipendenti a termine e indipendenti. A trainare la crescita degli occupati, per effetto della situazione demografica, sono soprattutto gli over 50 il cui tasso di occupazione è cresciuto a quasi il doppio della velocità delle altre classi d’età (+2 punti contro +1,2). Ma in Italia come si trova il lavoro? L’Istat segnala anche questo: lo si fa usando i canali informali. La quota di chi si rivolge a parenti, amici e conoscenti, nel 2023, è aumentata raggiungendo il 76,6% (+1,2 punti).
Autore: Raffaele Tovino 11 mar, 2024
Un aumento del 10% della forza lavoro, attraverso l’incremento dell’occupazione femminile, farebbe impennare il Pil nella stessa misura nel lungo periodo, soprattutto in aree tradizionalmente depresse come il Mezzogiorno Una premessa: l’8 marzo, ogni anno, c’è veramente poco da festeggiare. Perché quella giornata, tradizionalmente dedicata alle donne, riaccende i riflettori non solo sulle violenze fisiche, verbali e psicologiche cui esse sono sottoposte, ma anche sulle disparità e sulle inefficienze del mercato del lavoro che frenano lo sviluppo economico dell’Italia e, in particolare, del Mezzogiorno. I dati recentemente diffusi dalla Svimez, d’altra parte, non lasciano spazio a dubbi. Tra 2002 e 2021 circa 140mila nostre connazionali hanno deciso di emigrare all’estero ritenendolo più attrattivo, cioè caratterizzato da salari più elevati e da servizi di conciliazione più efficienti. Questa “emorragia” ha sottratto quasi 99mila donne al Centro-Nord e 40mila al Sud. Tra le due aree del Paese, inoltre, i divari sono netti anche per quanto riguarda la presenza femminile nel mondo del lavoro. Al Centro-Nord il tasso di occupazione per le donne tra 20 e 64 anni si attesta al 65,4% con punte dell’82,5 per le laureate; al Sud, invece, questi due dati non vanno rispettivamente oltre il 38,5 e il 68,4%. Ancora, in Italia il lavoro femminile è più povero e precario, il che significa che le donne sono costrette troppe volte ad accettare impieghi part-time e buste paga meno “pesanti”. E questo fenomeno è particolarmente evidente al Sud, dove il 30,7% delle donne ha un contratto part-time e il 18,3 porta a casa un salario basso, situazioni che nel caso degli uomini si verificano solo nel 9,7 e nel 13,2% dei casi. Infine, ci sono gli inattivi che in Italia ammontano a 9,8 milioni di cui il 70% costituito proprio da donne. In questo caso, Centro-Nord e Sud sono sostanzialmente appaiati, visto che la quota di donne che non lavorano né studiano oscilla tra il 67 e il 68%. E a destare particolare allarme sono le motivazioni per le quali le donne restano inattive: circa il 40% per motivi familiari e il 14 per ragioni di studio, il che dimostra quanto, in Italia, i servizi di conciliazione dei tempi di lavoro e vita privata siano scarsi e inadeguati. Eppure la parità tra uomo e donne conviene a tutti, capace com’è di favorire un mercato del lavoro più inclusivo, equo ed efficiente. E quella stessa parità, inoltre, è il viatico per lo sviluppo economico: un aumento del 10% della forza lavoro, attraverso l’incremento dell’occupazione femminile, farebbe impennare il Pil nella stessa misura nel lungo periodo, soprattutto in aree tradizionalmente depresse come il Mezzogiorno. Per centrare questo obiettivo, però, bisogna eliminare la cosiddetta “child penalty” nei tassi di ingresso e uscita dal mondo del lavoro in modo tale da far lievitare il tasso di occupazione femminile del 6,5% entro il 2040, come le economiste Francesca Carta, Marta De Philippis, Lucia Rizzica ed Eliana Viviano hanno calcolato. In concreto, questo vuol dire incrementare la disponibilità di asili nido per bambini da 0 a 2 anni, consentire un più largo ricorso ai congedi da parte dei papà e modificare un sistema di tassazione e trasferimenti che, prevedendo crediti d’imposta per il coniuge a carico, scoraggia l’occupazione delle donne che generalmente sono i membri della famiglia con le peggiori prospettive retributive. Le discriminazioni, insomma, sono figlie di un passato duro a morire e richiedono uno sforzo collettivo, come il presidente del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro Renato Brunetta ha opportunamente osservato. Quello sforzo collettivo deve prevedere non solo la lotta agli stereotipi, ma anche il miglioramento delle politiche di conciliazione, la rivisitazione del sistema di tassazione, la promozione di un’organizzazione del lavoro più flessibile. Altrimenti la dignità delle donne e l’economia del nostro Paese continueranno a essere calpestate non solo da retaggi e violenze di vario tipo, ma anche da una politica incapace di guardare al futuro.
Autore: Raffaele Tovino 05 mar, 2024
Il Governo Meloni ha fatto bene a cancellare quello che era diventato solo un inutile carrozzone politico. Ma ora restano i nodi che avrebbe dovuto sciogliere: quelli di semplificare la vita a chi ha bisogno di un impiego. Sembra che il governo Meloni ci abbia dato ascolto. A maggio 2023 su queste stesse pagine auspicavamo scelte chiare sull’Anpal, l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro istituita dal governo Renzi e poi fortemente ridimensionata dal governo Draghi con l’istituzione di una Direzione generale ad hoc presso il Ministero del Lavoro. Dal primo marzo scorso, l’Anpal ha cessato di esistere e le sue competenze sono state attribuite proprio a quella Direzione generale. Un carrozzone in meno, insomma: senz’altro una buona notizia. Resta da vedere, adesso, se e come il governo Meloni cambierà le politiche attive del lavoro per garantire un impiego a quell’esercito di disoccupati, inattivi e sottosalariati che ancora resiste soprattutto al Sud. Andiamo con ordine. L’addio all’Anpal mette fine a una vicenda che si trascinava dal 2015. Da quando, cioè, il governo Renzi istituì l’Agenzia nazionale per accentrare le politiche attive del lavoro e superare i venti sistemi regionali. Il progetto naufragò un anno più tardi, col referendum che bocciò la riforma costituzionale confermando la competenza concorrente tra Stato e Regioni in materia di politiche attive del lavoro. Col governo Conte I, l’Anpal curò l’accompagnamento al lavoro dei percettori di Reddito di cittadinanza con l’ausilio dei navigator, cioè i circa 3mila giovani assunti nel 2019 da Anpal Servizi e poi non confermati dall’attuale esecutivo. Il governo Draghi assestò poi un duro colpo all’Agenzia nazionale riportando in vita la Direzione generale delle politiche attive del lavoro presso il Ministero. La scelta del governo Meloni, dunque, è apprezzabile perché elimina quello che era ormai diventato un contenitore vuoto, utile soltanto a saziare la fame di poltrone delle forze politiche. I risultati ottenuti dall’Anpal, d’altro canto, non possono essere ritenuti soddisfacenti. Basta analizzare gli ultimi dati Istat che, per quanto confortanti rispetto al recente passato, ci ricordano come il tasso di disoccupazione si attesti pur sempre al 7,2%, con quella giovanile addirittura al 20,1, per non parlare del numero degli inattivi che aumenta di 19mila unità soprattutto tra donne e under 35 e al Sud. Vuol dire che, vicenda Anpal a parte, le politiche attive del lavoro vanno riviste. In che modo? Evitando di considerarle come una funzione esclusivamente pubblica o come un semplice insieme di misure per soggetti ai margini del mercato del lavoro. E, ovviamente, semplificando una materia che si articola in troppi livelli e nella quale si intrecciano normative contraddittorie. Una proposta concreta è il rafforzamento degli enti bilaterali, in modo da superare la logica novecentesca del conflitto tra sigle sindacali e associazioni datoriali. Gli enti bilaterali possono essere preziosi per comprendere i cambiamenti del mercato del lavoro, rilevare i fabbisogni, individuare i mestieri, costruire percorsi di apprendistato e interpretare una complessità che spesso sfugge alle norme nazionali. Da valorizzare è anche il ruolo di scuola, università e operatori privati autorizzati e accreditati, determinanti ai fini dell’incontro dinamico tra domanda e offerta di lavoro. Altrettanto indispensabile è la semplificazione della materia. L’Anpal, per esempio, rispondeva a una finalità pienamente condivisibile, cioè quella di superare la frammentazione delle politiche attive del lavoro in cui Regioni e Province autonome giocano un ruolo centrale, ma pur sempre con la possibilità di intervento da parte dello Stato e sulla base delle indicazioni (e dei finanziamenti) dell’Unione europea. Adesso questo obiettivo di semplificazione va confermato, ma occorre aggiungervi la razionalizzazione delle norme regionali e nazionali che da anni si “rincorrono” assecondando le impellenze del momento e non una linea organica. Quindi, bene il superamento dell’Anpal, ma ora tocca fare il passo successivo. Il Mondo del Lavoro
Autore: Raffaele Tovino 27 feb, 2024
Per chi vale? Chi la rilascia? Quanto vale? Quando entra in vigore? Sono previsti controlli anche dopo averla avuta? Quanti punti si perdono in caso di incidente mortale. E come si riconquistano. Un vademecum La patente a punti per garantire la sicurezza sui cantieri già fa discutere. Ma per conoscerne più approfonditamente le regole, La Stampa, questa mattina, ha dato risposta a sei precise domande. Cos’è la patente a punti? È un meccanismo pensato per incentivare e premiare le aziende che dimostrano un impegno concreto nell’adozione di misure di prevenzione e miglioramento della sicurezza sul lavoro. La patente parte da 30 crediti e consente di operare con una dotazione pari o superiore a 15 crediti. Chi riguarda? Sono tenuti al possesso della patente le imprese e i lavoratori autonomi che operano nei cantieri temporanei o mobili. Sono escluse le aziende in possesso dell’attestato di qualificazione Soa. Da quando entra in vigore? Dal prossimo 31 ottobre. Chi rilascia la patente? L’Ispettorato nazionale del Lavoro dopo l’iscrizione alla Camera di Commercio, l’adempimento da parte del datore di lavoro e dei lavoratori a tutti gli obblighi formativi, il possesso del Durc, del Documento di valutazione dei rischi e del Documento unico di regolarità fiscale.
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