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Le due Italie del lavoro

Raffaele Tovino • mar 14, 2024

Gli ultimi dati Istat sull'occupazione inchiodano il Mezzogiono ben 21 punti sotto il Nord. Ma persiste anche un enorme divario di genere: lavorano il 53% delle donne e il 70% degli uomini

Ci sono sempre più due Italie del lavoro. Nel Mezzogiorno, l‘occupazione si ferma al 48,2%, ben 21 punti in meno rispetto al Nord dove è al 69,4%. Ma non solo: le donne che lavorano sono il 53,4% contro il 70,8% degli uomini. Lo si evince dai dati Istat del quarto trimestre 2023 sebbene si chiuda con un bilancio positivo.

Gli occupati, infatti, sono aumentati di 481 mila unità (+2,1%) arrivando a toccare quota 23 milioni e 580 mila. I disoccupati, invece, sono scesi di 81 mila unità (-4%), sotto la soglia dei 2 milioni. Il tutto, mentre si sono registrati 468 mila inattivi in meno.

In questo modo, il tasso di occupazione è salito al 61,5% (+1,3 punti percentuali in un anno) e la disoccupazione è scesa al 7,7% (-0,4 punti).

“Al di là dei numeri, le difficoltà permangono – ha commentato la ministra del Lavoro, Marina Calderone – Ma i nuovi dati dell’Istat ci confortano nella direzione intrapresa da questo governo a favore di lavoratori e imprese”.

Se i dati generali sono positivi, come accennato, analizzando in dettaglio i dati del mercato del lavoro, emergono forti squilibri sia tra le varie aree del Paese che di genere.

A livello territoriale, il Mezzogiorno che pure nel 2023 ha mostrato l’aumento più consistente del tasso di occupazione (+1,6 punti sul 2022, arrivando al 48,2%), resta staccato di ben 21 punti dal Nord. Il Settentrione, a sua volta, ha messo a segno una crescita di 1,3 punti toccando il 69,4% mentre il Centro è al 65,9% (+1,1 punti).

Il tasso di disoccupazione nelle regioni meridionali (14%) è circa tre volte quello del Nord (4,6%) col Centro sopra al 6.

Ma non è ancora tutto: il divario, fortissimo, riguarda anche le donne il cui tasso di occupazione a livello nazionale si ferma al 53,4% (ed al Sud crolla al 37,2) contro il 70,8% degli uomini. I casi di scuola, a tal proposito, si rintracciano a Verona e Messina: nella città scaligera, c’è un tasso di occupazione femminile del 70,1%. Sullo Stretto, invece, del 29,7%.

Altro dato dissonante è quello che riguarda i Neet, i giovani che non studiano e non cercano lavoro: essi restano sopra quota 2,1 milioni, anche se nel 2023 sono diminuiti per il terzo anno consecutivo (-468 mila, -3,6%).

Di positivo invece c’è il fatto che la crescita dell’occupazione l’anno passato ha interessato soprattutto i dipendenti a tempo indeterminato, con 491 mila unità in più (+3,3%) e gli indipendenti (+62 mila, +1,3%) tornati sopra i 5 milioni (dato Confesercenti). Questo, mentre risultano in calo le forme di lavoro più precarie come i dipendenti a termine, con 73 mila unità in meno (-2,4%). In particolare, nel quarto trimestre 2023, gli occupati rispetto al trimestre precedente sono aumentati di 144 mila unità a seguito della crescita dei tempi indeterminati (+145 mila) e della sostanziale stabilità di dipendenti a termine e indipendenti.

A trainare la crescita degli occupati, per effetto della situazione demografica, sono soprattutto gli over 50 il cui tasso di occupazione è cresciuto a quasi il doppio della velocità delle altre classi d’età (+2 punti contro +1,2).

Ma in Italia come si trova il lavoro? L’Istat segnala anche questo: lo si fa usando i canali informali. La quota di chi si rivolge a parenti, amici e conoscenti, nel 2023, è aumentata raggiungendo il 76,6% (+1,2 punti).


Autore: Raffaele Tovino 11 mag, 2024
Anche l'Europa ha riconosciuto il valore di una misura che sostiene realmente le imprese meridionali e avvantaggia le assunzioni Il possibile stop alla Decontribuzione Sud ha provocato l’immediata levata di scudi da parte del mondo produttivo. A cominciare da quello pugliese, dove imprenditori e manager pubblici hanno rivolto un appello al ministro Raffaele Fitto affinché riveda questa decisione. Ma davvero la misura introdotta nel 2020 è così utile alle imprese? La risposta è sì. Anzi, quegli sgravi sono fondamentali non solo per le aziende, ma anche per gli stessi lavoratori. Per comprendere il concetto, basta analizzare le caratteristiche e gli effetti di Decontribuzione Sud. La norma prevede un esonero contributivo pari al 30% per i datori di lavoro privati con sede in una delle otto regioni meridionali fino al 31 dicembre 2025; l’entità della “sforbiciata” si riduce al 20% nel biennio 2026-2027 e al 10 nel 2028-2029. Gli effetti della misura sono incontestabili e conclamati dai numeri: ammontano a circa 3,7 milioni i lavoratori e le lavoratrici assunti nel Mezzogiorno. Non solo: uno studio condotto da Edoardo Di Porto e Paolo Naticchioni dimostra, numeri alla mano, come Decontribuzione Sud abbia avuto un impatto positivo sul mercato del lavoro. I due economisti hanno confrontato le province al confine tra Centro e Mezzogiorno, partendo dall’assunto che le dinamiche di sviluppo di territori così vicini siano simili a meno di shock di politica economica come, appunto, Decontribuzione Sud. In queste aree gli sgravi non hanno avuto alcun effetto sull’occupazione fino all’autunno del 2021; da quel momento e fino alla fine del 2022, però, l’impatto della misura è diventato positivo e relativamente stabile, nell’ordine del 10%. Decontribuzione Sud, inoltre, ha spiegato effetti positivi tanto per le imprese quanto per i lavoratori. Per le prime, il taglio dei contributi si è tradotto in una riduzione dei costi fissi legati alla gestione del personale e in una maggiore disponibilità di risorse da destinare allo sviluppo del business, all’adozione di nuove tecnologie e alla formazione del personale. Quanto ai lavoratori, gli incentivi hanno garantito l’assunzione di milioni di lavoratori in un’area, come quella del Mezzogiorno, già abbondantemente penalizzata dalla carenza di servizi e infrastrutture che sono decisivi per lo sviluppo economico. Ecco perché cancellare Decontribuzione Sud significa compromettere un ambiente favorevole alla crescita delle imprese, agli investimenti e all’assunzione di nuovo personale e, dunque, interrompere il percorso di riduzione delle disuguaglianze territoriali e promozione di una maggiore equità economica. E a nulla vale invocare l’argomento secondo il quale sarebbe l’Europa a sollecitare uno stop alla Decontribuzione Sud, perché è stata proprio Bruxelles, non più tardi del 15 dicembre scorso, ad autorizzare la proroga degli sgravi e l’aumento del massimale di erogazione per le imprese beneficiare. Ciò dimostra come l’Europa abbia riconosciuto il valore di una misura come Decontribuzione Sud nell’ottica del sostegno alle imprese meridionali in un contesto economico e politico, tra l’altro, ancora segnato da profonde incertezze. Cancellare gli incentivi per le imprese meridionali, dunque, significa sabotare il rilancio del Mezzogiorno. È questo ciò che vuole il governo Meloni? È questo ciò che vuole Raffaele Fitto, che oltre a essere il ministro è innanzitutto un uomo del Sud? Imprese e lavoratori attendono una risposta. IL MONDO DEL LAVORO
Autore: Raffaele Tovino 07 mag, 2024
Le ha elencate Will, la community dedicata all'informazione. Accorgendosi, però, che la battaglia contro le discriminazioni è ancora lontana dall'essere vinta Se vi state preparando per un colloquio di lavoro, sappiate che ci sono domande che nessuno può farvi. Quali? Le ha elencate di recente Will , specificando che non tutte sono lecite: alcune sono espressamente vietate dalla legge. Qualche esempio? Secondo l’articolo 27 del decreto legislativo 198/2006, è vietata “qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale”. Non solo: stando all’articolo 8 dello Statuto dei lavoratori, “è fatto divieto al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore”. Di conseguenza, queste norme di legge mettono fuori gioco domande come sei sposato? sei fidanzata? hai figli? pensi di averne? che partito voti? sei religioso? sei iscritto a un sindacato? Sono vietante, inoltre, tutte le domande che hanno a che fare con la vita privata del candidato non rilevanti ai fini della valutazione delle capacità del lavoratore. E nel caso della salute? I datori di lavoro (o chi per loro) possono sapere se chi assumono gode di sana e robusta costituzione? Stando al Dlgs 276/2003, c’è l’obbligo di dichiarare se si hanno disabilità fisiche nel curriculum. Tuttavia, non si possono chiedere al candidato informazioni sulla sua salute fisica e psicologica che non risultino rilevanti per il ruolo offerto. Sta di fatto che quando queste domande comunque vengono poste nel corso di un colloquio di lavoro, dimostrare l’eventuale discriminazione susseguente è molto difficile, anche se esistono strumenti per segnalare l’accaduto. Ci si può rivolgere, ad esempio, all’Ispettorato territoriale del lavoro o allo sportello unico digitale del Ministero del Lavoro alla sezione “mezzi di ricorso disponibili contro la discriminazione sul lavoro”. E incrociare le dita. IL MONDO DEL LAVORO
Autore: Raffaele Tovino 06 mag, 2024
Le disuguaglianze economiche e sociali potrebbero essere amplificate, la coesione nazionale potrebbe essere compromessa e la capacità di affrontare sfide comuni potrebbe essere indebolita. Memorandum L’autonomia differenziata, un tema di grande dibattito in Italia, in questi giorni sta sollevando questioni cruciali riguardo alla distribuzione del potere e delle risorse tra le regioni del Paese. Sebbene possa sembrare un’iniziativa promettente per favorire lo sviluppo locale, sono seriamente preoccupato riguardo al suo impatto sul Sud Italia. In questo articolo, vorrei esaminare il lato negativo dell’autonomia differenziata e fornire esempi numerici per illustrare perché potrebbe danneggiare le regioni meridionali. La prima preoccupazione riguarda la disparità economica tra il Nord e il Sud Italia. Attualmente, il Mezzogiorno soffre di tassi di disoccupazione più elevati, un livello più basso di sviluppo infrastrutturale e una minore capacità di attrarre investimenti rispetto al Nord. Quindi l’autonomia differenziata potrebbe esacerbare questa situazione, poiché le regioni più ricche potrebbero beneficiare maggiormente delle risorse e del potere decisionale aggiuntivi, lasciando il Sud in una posizione di enorme svantaggio. Per meglio comprendere questo problema, facciamo un esempio numerico. Supponiamo che due regioni, una del Nord e una del Sud, abbiano entrambe un PIL di 100 miliardi di euro. Con l’autonomia differenziata, la regione del Nord ottiene l’autorità per gestire una parte significativa delle proprie risorse, mentre la regione del Sud continua a dipendere in gran parte dai trasferimenti statali. Se la regione del Nord riesce a implementare politiche più efficienti e attrarre maggiori investimenti, potrebbe registrare una crescita economica più rapida rispetto al Sud. Di conseguenza, la disparità economica tra le due regioni potrebbe aumentare, con il Sud che rimane indietro. Inoltre, un altro aspetto di cui se ne parla poco è quello che l’autonomia differenziata potrebbe alimentare tensioni regionali e disuguaglianze sociali. Le regioni più ricche potrebbero essere in grado di finanziare servizi pubblici di alta qualità, mentre quelle più povere dovrebbero lottare per garantire gli stessi standard. Questo potrebbe portare a un divario sempre maggiore nel livello di benessere e qualità della vita tra il Nord e il Sud Italia. Un altro rischio dell’autonomia differenziata da non sottovalutare è la frammentazione politica e amministrativa del paese. Con ogni regione che ottiene maggiore autonomia decisionale, potrebbero emergere politiche e regolamentazioni diverse in tutto il paese, creando confusione e complicando la cooperazione tra le regioni. Ciò potrebbe rallentare lo sviluppo economico complessivo e compromettere la coesione nazionale. Infine, l’autonomia differenziata potrebbe influenzare negativamente la capacità del governo centrale di gestire le crisi nazionali e affrontare sfide comuni. In situazioni di emergenza, come la pandemia di COVID-19, la coordinazione e la collaborazione tra le regioni sono cruciali per garantire una risposta efficace. Tuttavia, l’autonomia differenziata potrebbe complicare questo processo, rallentando la distribuzione di risorse e la messa in atto di misure di emergenza. Concludendo, sebbene l’autonomia differenziata possa offrire vantaggi in termini di decentralizzazione e sviluppo locale, è importante considerare attentamente le sue implicazioni negative, soprattutto per il Sud Italia. Le disuguaglianze economiche e sociali potrebbero essere amplificate, la coesione nazionale potrebbe essere compromessa e la capacità di affrontare sfide comuni potrebbe essere indebolita. Pertanto, qualsiasi decisione riguardo all’autonomia differenziata dovrebbe essere ponderata e mirare a promuovere l’equità e lo sviluppo sostenibile in tutto il paese. IL MONDO DEL LAVORO
Autore: Raffaele Tovino 04 mag, 2024
Uno su tutti: l'università (con facoltà Stem) che dovrebbero essere aperte in tutte le province italiane Certo, per ridurre il divario occupazionale tra donne e uomini, soprattutto al Sud, sono indispensabili i servizi. Già, ma quali? Degli asili nido, necessari per consentire al gentil sesso di conciliare i tempi di famiglia e lavoro, si è abbondantemente detto. Così come, su un altro fronte, si è evidenziata l’urgenza di un più largo ricorso ai congedi parentali da parte dei papà. Ora un’attenta analisi del fenomeno suggerisce anche un’altra strada, cioè quella di una riforma del sistema universitario che avvicini le potenziali studentesse universitarie al luogo di fruizione dell’istruzione terziaria Stem riducendone i costi di mobilità territoriale. Il dato di partenza è quello di una sostanziale sotto-rappresentazione delle donne negli studi e nelle occupazioni Stem, cioè in quelle che riguardano scienze, tecnologia, ingegneria e matematica. In questo ambito, infatti, l’esperienza dimostra come le donne siano scoraggiate dal frequentare questo tipo di studi. Il motivo? Cause culturali e istituzionali, ma anche i troppo alti costi del trasporto verso gli atenei. Sul punto, cinque docenti italiani (Federica Braccioli, Paolo Ghinetti, Simone Moriconi, Costanza Naguib e Michele Pellizzari) hanno analizzato le recenti rilevazioni della forza lavoro condotte dall’Istat per ricostruire l’effetto dell’istruzione terziaria sul successo nel mercato del lavoro dei laureati italiani. Il risultato è una evidente correlazione tra le scelte universitarie e la vicinanza dell’università, dove per vicina deve intendersi una facoltà che si trovi nella stessa provincia di residenza del potenziale studente nel momento in cui quest’ultimo completa il ciclo di istruzione obbligatoria. Esempio: per un residente a Conversano è vicina una sede universitaria che si trovi nel perimetro della provincia di Bari al momento del conseguimento del diploma. In particolare, il team di docenti ha evidenziato come le donne siano quelle più sensibili al requisito della vicinanza territoriale della sede universitaria: le loro preferenze oscillano tra la scelta di un’istruzione terziaria Stem e quella di rinunciare all’università. In questo contesto, che cosa accadrebbe se una riforma introducesse una facoltà Stem in ogni provincia italiana in cui essa manca? Ne nascerebbero 48 sull’intero territorio italiano. Con una serie di effetti sorprendenti. Il primo: la quota di laureati in quelle materie aumenterebbe dell’1,1%, corrispondente a un incremento del 18% della loro consistenza attuale che ora non va oltre il 6,1. La maggior parte di questi laureati deriverebbe da chi, in mancanza di quella riforma, non si sarebbe iscritto all’università. Questo effetto sarebbe più forte per le donne: il divario di genere nelle materie Stem calerebbe di circa il 20%, mentre l’occupazione femminile crescerebbe di almeno mezzo punto. Che cosa dimostra tutto ciò? Che una politica seria di riduzione dei costi delle università, soprattutto di quelli legati alla mobilità territoriale, può contribuire ad abbattere il gender gap tanto nell’istruzione quanto nell’occupazione. Il problema è che di una simile strategia non parla alcuna forza politica. Così come nessuno parla, per esempio, di una modifica dell’attuale sistema di tassazione e trasferimenti che, prevedendo crediti d’imposta per il coniuge a carico, scoraggia l’occupazione delle donne che di solito sono i membri della famiglia con prospettive retributive peggiori. Insomma, non bastano le sole “armi” degli asili nido e dei congedi parentali, per quanto indispensabili, a vincere la “guerra” del divario di genere e della disoccupazione femminile. Qualcuno, a Roma, se ne accorgerà? IL MONDO DEL LAVORO
Autore: Raffaele Tovino 27 apr, 2024
Dalla riforma dell'Onu a quella dell'Unione Europea: la politica internazionale è chiamata a un salto di qualità Donald Tusk è stato chiaro: la guerra non è più un concetto del passato e dobbiamo abituarci mentalmente all’arrivo dell’era prebellica. Difficile dare torto al premier polacco, soprattutto se si analizza l’attuale scenario internazionale, segnato da decine di scontri armati. Piuttosto, la domanda da porsi è una: come se ne esce? Quale strategia va seguita per evitare che certe tensioni deflagrino e impongano a tutto il mondo, dunque non solo all’Italia e all’Europa, costi umani ed economici da capogiro? La soluzione è un nuovo meccanismo, efficace e democratico, di gestione delle crisi. In altre parole, serve la politica. Partiamo, come sempre, dai numeri. Secondo Crisis Group, il numero dei conflitti in corso o potenziali ha raggiunto la preoccupante soglia di 55, di cui almeno dieci già definibili come guerra o scontro armato. Ad aggravare la situazione concorre il fatto che oltre il 90% delle vittime sia costituito da civili. Insomma, lo scenario preconizzato da papa Bergoglio, che in tempi non sospetti ha parlato di “terza guerra mondiale a pezzi”, sembra essersi concretizzato. Tanto che, per decine di Paesi sparsi nel mondo, una delle principali sfide di questo 2024 sarà quella di uscire indenni dal moltiplicarsi dei conflitti. La caratteristica principale – e, forse, più preoccupante – di questo scenario complessivo è l’incapacità della diplomazia di ricomporre le crisi. Grandi sforzi producono sistematicamente piccoli risultati, prevalentemente nel campo degli interventi umanitari, come scambi di prigionieri e la distribuzione temporanea di cibo e medicinali ai civili. La politica, però, non riesce ad andare oltre come invece riusciva a fare in passato. Basti pensare a quanto accaduto in Vietnam e in Corea, dove le diplomazie si dimostrarono capaci di raggiungere un cessate il fuoco o un accordo per la conclusione del conflitto. E quando si dice che la politica ha fallito, vuol dire che a fallire sono state sia le Nazioni Unite, incapaci di imporre le decisioni necessarie per preservare la pace, sia l’unipolarismo degli Stati Uniti, messo in crisi dal risveglio della Russia, dal “rampantismo” della Cina e dal sempre maggiore spazio che i Paesi del cosiddetto Global South hanno conquistato nello scenario internazionale. E allora? Indispensabile è un diverso sistema multilaterale con meccanismi, più efficaci e democratici, di composizione delle crisi internazionali. Un’idea potrebbe essere anche il superamento dell’ormai antistorico diritto di veto che da decenni paralizza le decisioni delle Nazioni Unite. Così come bisogna abbandonare l’idea della difesa europea come semplice coordinamento delle difese nazionali. Sul piano industriale, ogni Stato membro dell’Unione si muove autonomamente, alimentando la competizione con gli Stati più piccoli e accrescendo la frammentazione della produzione militare; sul piano militare, il modello del coordinamento ha generato duplicazioni e sprechi nelle spese militari nazionali, con l’effetto di depotenziare la capacità dissuasiva dell’Unione europea. Questi problemi si risolvono con l’introduzione di un modello sovranazionale di difesa europea, finanziato da debito europeo e non dai singoli Paesi. La politica internazionale, a cominciare da quella europea, è quindi chiamata a un salto di qualità. E chi crede che certe questioni siano lontane dalla realtà locale della Puglia, della Basilicata e del Mezzogiorno d’Italia, si sbaglia di grosso: se non sarà arginato in tempi brevi, il proliferare dei conflitti non farà altro che far lievitare il costo della vita, la disoccupazione e la disperazione sociale. E questo è un costo che l’Italia, il Sud in particolare, non può permettersi di sostenere. IL MONDO DEL LAVORO
Autore: Raffaele Tovino 24 apr, 2024
Ad affermarlo è uno studio diretto da Trine Holt Edwin dell’Università di Oslo appena pubblicato su Neurology: se si svolgono in un ambiente stimolante, tanto meglio Chi svolge un lavoro creativo è maggiormente al riparo dalla demenza. A indicarlo è uno studio diretto da Trine Holt Edwin dell’ Università di Oslo , appena pubblicato su Neurology . I titoli accademici, è il risultato della ricerca, proteggono solo in parte dal rischio di demenza in tarda età perché la grande difesa di una mente creativa è ciò che si fa dai 30 ai 65 anni. Quindi, il lavoro. Tant’è che potrebbe diventare quest’ultimo il simbolo di chi non svilupperà demenza o MCI, acronimo di mild cognitive impairment, cioè compromissione cognitiva lieve, la cosiddetta dimenticanza patologica che a volte, però, è l’anticamera della demenza. Gli studiosi hanno verificato che le abilità cognitive acquisite a scuola sono pareggiate da attività lavorative cognitivamente stimolanti che poi si fanno nella vita. E la forza di questa stimolazione quotidiana si fa sentire ancor di più in chi ha un livello di scolarità basso. Chi è laureato, ma fa un lavoro routinario e poco stimolante, si difende dalla demenza alla pari con chi ha solo la licenza media o il diploma ma fa un lavoro creativo e stimolante. Degli esempi di lavori salva-demenza? Gli orafi. O i sarti. Ma, più in generale, quanto incide la routinarietà del lavoro? Per verificarlo, i ricercatori hanno messo a punto un indice ad essa dedicato: più l’RTI è basso, più il lavoro è cognitivamente stimolante. Hanno un RTI basso insegnanti elementari e liceali, un RTI medio-basso assistenti d’infanzia e infermieri. Un RTI medio-alto, invecem negoziati e altri venditori al dettaglio. E le nuove professioni? Oggi più che mai occorre tener conto della moderna automazione del lavoro: anche la catena di montaggio non è più il lavoro routinario di una volta, ma richiede nuove competenze per tecnologie di intelligenza artificiale, software, robotica e realtà virtuale, ad esempio. Così, anche la semplice introduzione del pagamento con carta di credito – è stato osservato – ha richiesto ai negozianti nuove competenze digitali che li hanno stimolati cognitivamente. Sta di fatto che, entro il 2030, in Italia, saranno automatizzati 7 milioni di posti di lavoro e ciò avvantaggerà il decadimento cognitivo dei colletti blu. Tuttavia,bisogna ricordare che, fra i fattori da calcolare nel rischio di demenza, c’è anche l’occupazione retribuita, soprattutto fra i 45 e i 55 anni. E conta anche il pensionamento e l’assegno di pensione a cui vanno aggiunti lo stato civile (se si è coniugati o single), la solitudine o anche solo la sensazione di esserlo o il tempo libero disponibile per attività ricreative come andare al cinema o a teatro. Non mancano ovviamente fattori più squisitamente organici come l’obesità, il diabete o il calo dell’udito, nonché insane abitudini di vita come il fumo e la poca attività fisica quotidiana. In ogni caso, il lavoro è fondamentale per una buona salute mentale, soprattutto se si svolge in un ambiente stimolante: vivere insieme agli altri in maniera interattiva è la miglior strategia anti-demenza. IL MONDO DEL LAVORO
Autore: Raffaele Tovino 20 apr, 2024
Una scelta che consente alle imprese, alle famiglie e allo Stato di risparmiare i costi diretti e indiretti di ciascun incidente. Ma non solo: permette di conseguire vantaggi in termini di produttività e competitività Mettiamola così: chi ritiene che l’esborso per la sicurezza sul lavoro sia soltanto una spesa e non anche un investimento, farebbe bene a riflettere. Il tema è tornato d’attualità dopo la strage di Suviana, in provincia di Bologna, dove una centrale idroelettrica è esplosa provocando la morte di sette operai. L’opinione pubblica e i sindacati sono tornati (giustamente) a invocare l’intervento della politica per fermare una catena di morte che comprende anche altre recenti tragedie come quella dell’Esselunga di Firenze. Ora la domanda è: a chi conviene garantire la sicurezza dei lavoratori? A questi ultimi e alle loro famiglie, non c’è dubbio. Ma anche alle aziende e all’intera collettività. E per capirlo è sufficiente fare due conti. Su scala globale, infatti, gli incidenti sul lavoro costano circa due miliardi di euro, pari al 3.9% del pil mondiale. Nell’Unione europea, questo valore si aggira sui 475 miliardi, pari al 3.3% del pil. E in Italia? Nel nostro Paese i costi totali legati agli infortuni oscillano tra il 3.5 e addirittura il 6.3% del pil, a seconda delle diverse analisi condotte. Se si prende come riferimento il valore più basso, frutto dell’indagine condotta dalla Commissione parlamentare di inchiesta sugli infortuni sul lavoro, la scarsa sicurezza costa 45 miliardi l’anno, pari a oltre 64mila euro per ciascun occupato. E non finisce qui: secondo il dossier Eu-Osha, a pagare il costo degli infortuni è per il 67% il personale, mentre alla parte datoriale tocca il 20. Un incidente sul lavoro, infatti, comporta per ciascuna impresa una lunga serie di costi aggiuntivi: quelli legati alle assenze per malattia, quelli per la sostituzione dei lavoratori infortunati, quelli per la mancata produzione, quelli assicurativi e infine quelli per eventuali sanzioni penali. Senza dimenticare, ovviamente, l’impatto sulla società, visto che ciascun infortunio o ciascuna morte produce effetti sulla famiglia del lavoratore interessato, sulle incombenze che gravano sui colleghi e sull’impegno delle compagnie di assicurazione: si pensi a un genitore che, dopo un incidente sul lavoro, non può prendersi cura della moglie e dei figli. Investire in sicurezza, dunque, consente alle imprese, alle famiglie e allo Stato di risparmiare i costi diretti e indiretti di ciascun incidente. In più, permette di conseguire vantaggi in termini di produttività e competitività. All’origine degli infortuni, infatti, ci sono carenze organizzative e gestionali che, se opportunamente corrette, aumentano le performance dei lavoratori. In altre parole, ordine, pulizia, organizzazione efficiente, macchinari moderni e formazione affidata a soggetti qualificati garantiscono benefici al business dell’impresa, rivelandosi un’opportunità di crescita. Non a caso c’è chi ha definito l’esborso per la sicurezza dei lavoratori “un investimento non solo etico, ma anche pragmatico in vista del successo a lungo termine delle aziende”. Di queste indicazioni dovrebbero tenere conto non solo le imprese, ma anche la politica. Anziché rinunciare a investimenti sulla sicurezza o perdersi in proposte destinate a rimanere tali, entrambe farebbero bene a ricordare che destinare risorse a quell’ambito conviene economicamente a tutti. Se non si vuole investire in sicurezza per proteggere i lavoratori e le loro famiglie da infortuni e morti bianche, insomma, lo si faccia almeno per risparmiare costi esorbitanti e aumentare la produttività del sistema Paese. IL MONDO DEL LAVORO
Autore: Raffaele Tovino 13 apr, 2024
Emanuele Orsini, il nuovo presidente di Confindustria, sa bene che, più degli investimenti, ora la priorità è assicurarsi lavoratori qualificati Gli investimenti? No, in tempi di Pnrr la vera sfida per le imprese è quella di trovare non tanto risorse quanto personale con le competenze necessarie per lavorare a nuovi prodotti in nuovi mercati. Emanuele Orsini, presidente designato di Confindustria, ne è certamente consapevole. Come è consapevole della necessità di una più forte istruzione terziaria professionalizzante, alternativa e parallela alle università tradizionali, e quindi di un sistema di Its che funzioni anche dopo che il Pnrr sarà stato archiviato e aiuti l’industria nazionale a essere maggiormente competitiva. Partiamo, come sempre, dai numeri. In Germania gli studenti inseriti nei canali professionalizzanti sono il 50% del totale, in Francia e in Svizzera il 30 e in Spagna il 10. In Italia, invece, registriamo la “miseria” di 30mila iscritti a fronte di un milione e mezzo di studenti universitari. Prima del Pnrr la situazione era persino meno incoraggiante, con soli 16mila iscritti e 20 Its in meno. I numeri attuali, dunque, dimostrano come il miliardo e mezzo di euro destinato dal Piano ai 146 Its abbia realizzato ciò che in precedenza non era nemmeno immaginabile. Può bastare? Ovviamente no, a meno che non si vogliano perdere le varie sfide alle quali il mercato chiama l’economia nazionale. La prima cosa da fare è rendere più solido il legame tra il mondo della scuola e l’istruzione terziaria professionalizzante. Il che significa istituire una direzione dedicata agli Its presso il Ministero dell’Istruzione, sperimentare la formula del 4+2 per legare le scuole tecniche e professionalizzanti agli stessi Its, fare in modo che questi ultimi si appoggino agli istituti superiori in modo da avere una fonte sicura di studenti. In questa prospettiva, è altrettanto importante rafforzare le economie locali. Molte regioni, infatti, non hanno grandi imprese o distretti industriali che possano guidare la fondazione degli Its e beneficiare della cosiddetta formazione su commissione. Ancora, in questo contesto, è indispensabile coinvolgere le associazioni professionali dei servizi e non solo quelle industriali visto che, al giorno d’oggi, molte specializzazioni riguardano proprio il settore dei servizi. Ma la prova forse più ardua comincerà tra due anni, dopo il 30 giugno 2026, termine entro il quale dovranno essere rendicontate tutte le spese coperte dal Pnrr. E si tratterà di una prova essenzialmente economica, nel senso che l’Italia dovrà trovare risorse adeguate per alimentare l’istruzione tecnica superiore. Sulle pagine del Foglio, Marco Leonardi ha fatto il conto della serva: oggi il sistema degli Its riceve 50 milioni l’anno dallo Stato e più di cento dalle Regioni; considerando necessari dieci corsi per 150 istituti e che ciascun corso costa approssimativamente 300mila euro, il finanziamento dovrà triplicare ad almeno 450 milioni l’anno. Lo Stato troverà queste risorse? Garantirà ai giovani italiani un’opzione professionalizzante di alto livello come le Fachhochschule tedesche, dove si formano lavoratori con capacità specifiche che rispondono alle reali esigenze delle imprese? Dimostrerà di voler tenere in piedi un sistema indispensabile per supportare l’industria nazionale e, in particolare, quella meridionale? È questa la sfida che la politica italiana dovrà vincere nei prossimi anni. Il Mondo del Lavoro
Autore: Raffaele Tovino 10 apr, 2024
Gli ultimi dati dell'Istat inchiodano l'Italia al ventunesimo posto nella classifica dei 27 Paesi dell'Unione Europea. Il tutto mentre le imprese hanno bisogno di personale sempre più specializzato Mentre le aziende hanno bisogno di personale sempre più specializzato (di mismath ne abbiamo parlato qui ), quello della formazione rimane un vero nodo irrisolto nel mondo del lavoro italiano. Secondo l’ Istat , il 31% (contro il 20,2% della media europea) dei giovani tra i 18 e 24 anni semplicemente la ignora. E se si allarga lo sguardo alla situazione generale, il tasso di partecipazione italiano è di ben 11 punti sotto la media europea: siamo ventunesimi nella classifica dei 27 Paesi della Ue, ben lontano dal 47% fissato tra gli obiettivi del Consiglio europeo per il 2025. Andando poi nello specifico: solo poco più di un terzo degli italiani d’età compresa tra 25 e 64 anni ha partecipato ad attività di istruzione e formazione: il 35,7% per l’esattezza. Dall’istituto di statistica, poi, si evince anche che, tra i giovani della fascia 18-21 anni, quasi il 21% non si forma e non lavora, percentuale che nel Mezzogiorno sale al 29,8%. Nel dettaglio, poi: il 4% della popolazione tra i 25-64 anni partecipa ad attività di apprendimento formale (corsi di istruzione e formazione scolastici, universitari, Afam, regionali e simili che rilasciano un titolo di studio o una qualifica professionale), contro il 6,3% della media europea. Il 34,1% partecipa ad attività di apprendimento informali (imparando da amici, parenti, colleghi, utilizzando libri, riviste specializzate, Pc, tablet, telefono) contro il 44% della media Ue. Ma, in Italia, anche il numero di ore dedicate complessivamente alla formazione è più basso rispetto alla media della Ue a 27 (133 e 144 rispettivamente). Questo, per effetto del minor numero di ore mediamente dedicate all’istruzione formale (405 rispetto a 512). Ci si domanda, allora: perché questa situazione? Una prima risposta potrebbe essere che, di fondo, manca una motivazione forte che spinga alla partecipazione: quasi l’80% dei 25-64enni che non si forma non ha interesse a farlo, mentre per gli altri i costi elevati rappresentano un ostacolo (nel 23,7% dei casi contro il 13,7% della media Ue a 27). Sempre nella fascia tra i 18 e i 24 anni, il tasso di partecipazione in attività formali si ferma al 49%, pari a ben 15,3 punti percentuali sotto la media europea. Se poi vogliamo confrontarci con la Germania, c’è davvero da imbarazzarsi: abbiamo accumulato 27 punti la differenza con i tedeschi che, non a caso, da tempo hanno sviluppato un sistema di formazione duale. Anche il tasso di partecipazione ad attività non formali (che si attesta al 42,2%) è comunque inferiore di 5,4 punti rispetto a quello europeo (e di ben 17,3 punti sotto la Germania). Last but not least: le attività di apprendimento formali sono quasi nulle dopo i 35 anni (solo l’1,3%) e anche quelle non formali crollano con l’uscita dal mercato del lavoro. In quest’ultimo caso, meno di un terzo degli italiani tra 35 e 64 anni partecipa ad attività di apprendimento non formale. Il Mondo del Lavoro
Autore: Raffaele Tovino 02 apr, 2024
Sette lavoratori italiani su dieci ricoprono ruoli potenzialmente esposti alla nuova tecnologia Su quali professioni l’intelligenza artificiale avrà l’impatto più forte? Molti esperti si sono posti questo interrogativo, visto che le nuove tecnologie renderanno obsoleti alcuni lavori, aumenteranno la domanda per altri e incideranno sulla produttività di altri ancora. E tutte le indagini sul tema hanno condotto allo stesso risultato: più a rischio sono le professioni in cui maggiore è l’utilizzo di abilità cognitive, con un grado di esposizione particolarmente elevato per le donne e per chi opera nel Centro-Nord. Secondo numerosi analisti, una professione che potrebbe subire le pesanti conseguenze dell’uso massivo dell’intelligenza artificiale è quella dell’avvocato. Quest’ultimo, infatti, ha tra i suoi compiti quello di ordinare le informazioni e, in tal senso, rischia di vedersi sostituito dalle nuove tecnologie. I legali, però, potrebbero essere in buona compagnia. Se si analizza la rilevazione della forza lavoro dell’Istat per il 2022, si nota come sette lavoratori italiani su dieci ricoprano ruoli potenzialmente esposti all’intelligenza artificiale: parliamo di 15 milioni di persone su un totale di oltre 21, con 7 milioni per i quali il rischio sarebbe particolarmente elevato. E i pericoli maggiori si riscontrano per i lavoratori con titoli di studio più elevati, cioè per chi opera nel settore dei servizi, nei vari comparti della pubblica amministrazione, nell’informazione e nella comunicazione, nelle attività finanziarie e assicurative, nell’istruzione e persino nella sanità e nei servizi sociali. E qui suona l’ulteriore campanello d’allarme: il rischio di essere travolti dall’intelligenza artificiale è ancora più alto per le donne che costituiscono il 37% della forza lavoro impiegata nei settori appena citati. Se si analizzano le regioni italiane, invece, emerge come il Centro e il Nord siano generalmente più esposti alla diffusione delle nuove tecnologie nel mondo del lavoro. È il caso soprattutto di Lazio e Lombardia, territori in cui è particolarmente consistente il peso di settori come assicurazioni e finanza, pubblica amministrazione, informazione e comunicazione. Senza dimenticare il comparto industriale dove la presenza di professioni legate a management, comunicazione, ricerca e sviluppo accresce i pericoli legati all’intelligenza artificiale. Per Lazio e Lombardia, dunque, l’esposizione è media rispettivamente nel 78,3 e nel 73,1% dei casi, mentre è alta nel 36,5 e nel 39,2; quanto a Puglia e Basilicata, i rischi sono medi rispettivamente nel 66,4 e nel 65,9% delle ipotesi, ma diventano alti nel 25 e nel 24. Che cosa vogliono dire questi dati, messi insieme in una interessante analisi condotta da Guido Baronio, Antonio Dalla Zuanna, Davide Dottori, Elena Gentil, Giovanni Linfante e Luca Mattei? Che l’intelligenza artificiale richiede la definizione e l’adozione di una strategia fin da subito. Magari i tempi saranno più lenti in Italia, che ha un tessuto economico caratterizzato da piccole e medie imprese e tanti lavoratori autonomi e da una bassa propensione all’innovazione, ma non c’è dubbio sul fatto che gli scenari descritti siano destinati a realizzarsi. Con una serie di conseguenze non solo in termini di diminuzione delle assunzioni per le figure professionali più esposte all’intelligenza artificiale, ma anche di andamento del reddito soprattutto nel settore dei servizi: alcuni lavoratori potrebbero risentire della diffusione delle nuove tecnologie attraverso una riduzione del salario, mentre altri potrebbero sfruttarle per incrementare la propria produttività e quindi la retribuzione. Ecco perché su questo tema è il caso di avviare una discussione seria e propositiva immediatamente. A meno che l’Italia, in particolare il Sud, non vogliano farsi cogliere impreparati da questa ennesima rivoluzione. Il Mondo del Lavoro
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