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Sicurezza sul lavoro, ecco le modifiche in cantiere

Raffaele Tovino • mar 27, 2024

Ieri incontro tra Governo e parti sociali: anche la patente a punti sembra destinata ad essere emendata

Novità sul fronte delle nuove normative della sicurezza sul lavoro: Governo e maggioranza provano a calibrare meglio le nuove regole come quelle sancite dalla patente a punti e aprendo ai contratti più rappresentativi al posto dei contratti maggiormente applicati.

Di questo si è discusso ieri nel corso di un incontro tecnico tra gli esperti di Ministero del Lavoro e parti sociali.

In primis, si è presa in esame la possibilità di fare riferimento ai contratti comparativamente più rappresentativi al posto dei contratti maggiormente applicati. Possibile correzione, quindi, in vista sulla disposizione contenuta nel nuovo decreto Pnrr per frenare le esternalizzazioni di alcune attività al solo scopo di abbattere il costo del lavoro.

Nell’attuale formulazione, la norma prevede che nei casi di appalto di opere o servizi è obbligatorio corrispondere ai lavoratori, anche di eventuali sub appaltatori, un trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dal “contratto collettivo nazionale e territoriale maggiormente applicato nel settore e per la zona il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto”. Quest’ultimo riferimento, pertanto, verrebbe modificato, e si introdurrebbe il richiamo ai “contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative”.

È entrato nel merito, poi, il dialogo per l’applicazione della nuova patente a crediti: lo strumento debutterà strutturalmente, ma dopo la sua entrata in vigore sarà “attentamente monitorato” anche per valutare possibili correzioni.

Per garantire la certezza del diritto, ad esempio, i crediti potranno essere tolti dopo sentenza definitiva salvo sospensione in via cautelare, tant’è che nei casi più gravi c’è il sequestro del cantiere. Nel meccanismo di recupero dei “punti”, poi, potrebbe entrare anche la formazione dei lavoratori. E altri emendamenti spingono anche per incrementare i punti iniziali della patente (oggi fissati in 30), e poter arrivare fino a 100 in base alla grandezza dell’azienda o ad altri criteri come, ad esempio, l’adozione di modelli di organizzazione e di gestione o un sistema di gestione per la salute e la sicurezza sul lavoro certificato.

Un altro tema di discussione con le parti sociali, infine, ha riguardato le imprese in possesso di attestazione Soa: quest’ultime non sarebbero escluse dalla patente a crediti, ma potrebbero avere punteggi aggiuntivi.

Le reazioni dei sindacati? In chiaro scuro, tant’è che il segretario generale della Fillea-Cgil, Alessandro Genovesi, ha confermato la mobilitazione e lo sciopero di 8 ore per il giorno 11 aprile.


Autore: Raffaele Tovino 27 apr, 2024
Dalla riforma dell'Onu a quella dell'Unione Europea: la politica internazionale è chiamata a un salto di qualità Donald Tusk è stato chiaro: la guerra non è più un concetto del passato e dobbiamo abituarci mentalmente all’arrivo dell’era prebellica. Difficile dare torto al premier polacco, soprattutto se si analizza l’attuale scenario internazionale, segnato da decine di scontri armati. Piuttosto, la domanda da porsi è una: come se ne esce? Quale strategia va seguita per evitare che certe tensioni deflagrino e impongano a tutto il mondo, dunque non solo all’Italia e all’Europa, costi umani ed economici da capogiro? La soluzione è un nuovo meccanismo, efficace e democratico, di gestione delle crisi. In altre parole, serve la politica. Partiamo, come sempre, dai numeri. Secondo Crisis Group, il numero dei conflitti in corso o potenziali ha raggiunto la preoccupante soglia di 55, di cui almeno dieci già definibili come guerra o scontro armato. Ad aggravare la situazione concorre il fatto che oltre il 90% delle vittime sia costituito da civili. Insomma, lo scenario preconizzato da papa Bergoglio, che in tempi non sospetti ha parlato di “terza guerra mondiale a pezzi”, sembra essersi concretizzato. Tanto che, per decine di Paesi sparsi nel mondo, una delle principali sfide di questo 2024 sarà quella di uscire indenni dal moltiplicarsi dei conflitti. La caratteristica principale – e, forse, più preoccupante – di questo scenario complessivo è l’incapacità della diplomazia di ricomporre le crisi. Grandi sforzi producono sistematicamente piccoli risultati, prevalentemente nel campo degli interventi umanitari, come scambi di prigionieri e la distribuzione temporanea di cibo e medicinali ai civili. La politica, però, non riesce ad andare oltre come invece riusciva a fare in passato. Basti pensare a quanto accaduto in Vietnam e in Corea, dove le diplomazie si dimostrarono capaci di raggiungere un cessate il fuoco o un accordo per la conclusione del conflitto. E quando si dice che la politica ha fallito, vuol dire che a fallire sono state sia le Nazioni Unite, incapaci di imporre le decisioni necessarie per preservare la pace, sia l’unipolarismo degli Stati Uniti, messo in crisi dal risveglio della Russia, dal “rampantismo” della Cina e dal sempre maggiore spazio che i Paesi del cosiddetto Global South hanno conquistato nello scenario internazionale. E allora? Indispensabile è un diverso sistema multilaterale con meccanismi, più efficaci e democratici, di composizione delle crisi internazionali. Un’idea potrebbe essere anche il superamento dell’ormai antistorico diritto di veto che da decenni paralizza le decisioni delle Nazioni Unite. Così come bisogna abbandonare l’idea della difesa europea come semplice coordinamento delle difese nazionali. Sul piano industriale, ogni Stato membro dell’Unione si muove autonomamente, alimentando la competizione con gli Stati più piccoli e accrescendo la frammentazione della produzione militare; sul piano militare, il modello del coordinamento ha generato duplicazioni e sprechi nelle spese militari nazionali, con l’effetto di depotenziare la capacità dissuasiva dell’Unione europea. Questi problemi si risolvono con l’introduzione di un modello sovranazionale di difesa europea, finanziato da debito europeo e non dai singoli Paesi. La politica internazionale, a cominciare da quella europea, è quindi chiamata a un salto di qualità. E chi crede che certe questioni siano lontane dalla realtà locale della Puglia, della Basilicata e del Mezzogiorno d’Italia, si sbaglia di grosso: se non sarà arginato in tempi brevi, il proliferare dei conflitti non farà altro che far lievitare il costo della vita, la disoccupazione e la disperazione sociale. E questo è un costo che l’Italia, il Sud in particolare, non può permettersi di sostenere. IL MONDO DEL LAVORO
Autore: Raffaele Tovino 24 apr, 2024
Ad affermarlo è uno studio diretto da Trine Holt Edwin dell’Università di Oslo appena pubblicato su Neurology: se si svolgono in un ambiente stimolante, tanto meglio Chi svolge un lavoro creativo è maggiormente al riparo dalla demenza. A indicarlo è uno studio diretto da Trine Holt Edwin dell’ Università di Oslo , appena pubblicato su Neurology . I titoli accademici, è il risultato della ricerca, proteggono solo in parte dal rischio di demenza in tarda età perché la grande difesa di una mente creativa è ciò che si fa dai 30 ai 65 anni. Quindi, il lavoro. Tant’è che potrebbe diventare quest’ultimo il simbolo di chi non svilupperà demenza o MCI, acronimo di mild cognitive impairment, cioè compromissione cognitiva lieve, la cosiddetta dimenticanza patologica che a volte, però, è l’anticamera della demenza. Gli studiosi hanno verificato che le abilità cognitive acquisite a scuola sono pareggiate da attività lavorative cognitivamente stimolanti che poi si fanno nella vita. E la forza di questa stimolazione quotidiana si fa sentire ancor di più in chi ha un livello di scolarità basso. Chi è laureato, ma fa un lavoro routinario e poco stimolante, si difende dalla demenza alla pari con chi ha solo la licenza media o il diploma ma fa un lavoro creativo e stimolante. Degli esempi di lavori salva-demenza? Gli orafi. O i sarti. Ma, più in generale, quanto incide la routinarietà del lavoro? Per verificarlo, i ricercatori hanno messo a punto un indice ad essa dedicato: più l’RTI è basso, più il lavoro è cognitivamente stimolante. Hanno un RTI basso insegnanti elementari e liceali, un RTI medio-basso assistenti d’infanzia e infermieri. Un RTI medio-alto, invecem negoziati e altri venditori al dettaglio. E le nuove professioni? Oggi più che mai occorre tener conto della moderna automazione del lavoro: anche la catena di montaggio non è più il lavoro routinario di una volta, ma richiede nuove competenze per tecnologie di intelligenza artificiale, software, robotica e realtà virtuale, ad esempio. Così, anche la semplice introduzione del pagamento con carta di credito – è stato osservato – ha richiesto ai negozianti nuove competenze digitali che li hanno stimolati cognitivamente. Sta di fatto che, entro il 2030, in Italia, saranno automatizzati 7 milioni di posti di lavoro e ciò avvantaggerà il decadimento cognitivo dei colletti blu. Tuttavia,bisogna ricordare che, fra i fattori da calcolare nel rischio di demenza, c’è anche l’occupazione retribuita, soprattutto fra i 45 e i 55 anni. E conta anche il pensionamento e l’assegno di pensione a cui vanno aggiunti lo stato civile (se si è coniugati o single), la solitudine o anche solo la sensazione di esserlo o il tempo libero disponibile per attività ricreative come andare al cinema o a teatro. Non mancano ovviamente fattori più squisitamente organici come l’obesità, il diabete o il calo dell’udito, nonché insane abitudini di vita come il fumo e la poca attività fisica quotidiana. In ogni caso, il lavoro è fondamentale per una buona salute mentale, soprattutto se si svolge in un ambiente stimolante: vivere insieme agli altri in maniera interattiva è la miglior strategia anti-demenza. IL MONDO DEL LAVORO
Autore: Raffaele Tovino 20 apr, 2024
Una scelta che consente alle imprese, alle famiglie e allo Stato di risparmiare i costi diretti e indiretti di ciascun incidente. Ma non solo: permette di conseguire vantaggi in termini di produttività e competitività Mettiamola così: chi ritiene che l’esborso per la sicurezza sul lavoro sia soltanto una spesa e non anche un investimento, farebbe bene a riflettere. Il tema è tornato d’attualità dopo la strage di Suviana, in provincia di Bologna, dove una centrale idroelettrica è esplosa provocando la morte di sette operai. L’opinione pubblica e i sindacati sono tornati (giustamente) a invocare l’intervento della politica per fermare una catena di morte che comprende anche altre recenti tragedie come quella dell’Esselunga di Firenze. Ora la domanda è: a chi conviene garantire la sicurezza dei lavoratori? A questi ultimi e alle loro famiglie, non c’è dubbio. Ma anche alle aziende e all’intera collettività. E per capirlo è sufficiente fare due conti. Su scala globale, infatti, gli incidenti sul lavoro costano circa due miliardi di euro, pari al 3.9% del pil mondiale. Nell’Unione europea, questo valore si aggira sui 475 miliardi, pari al 3.3% del pil. E in Italia? Nel nostro Paese i costi totali legati agli infortuni oscillano tra il 3.5 e addirittura il 6.3% del pil, a seconda delle diverse analisi condotte. Se si prende come riferimento il valore più basso, frutto dell’indagine condotta dalla Commissione parlamentare di inchiesta sugli infortuni sul lavoro, la scarsa sicurezza costa 45 miliardi l’anno, pari a oltre 64mila euro per ciascun occupato. E non finisce qui: secondo il dossier Eu-Osha, a pagare il costo degli infortuni è per il 67% il personale, mentre alla parte datoriale tocca il 20. Un incidente sul lavoro, infatti, comporta per ciascuna impresa una lunga serie di costi aggiuntivi: quelli legati alle assenze per malattia, quelli per la sostituzione dei lavoratori infortunati, quelli per la mancata produzione, quelli assicurativi e infine quelli per eventuali sanzioni penali. Senza dimenticare, ovviamente, l’impatto sulla società, visto che ciascun infortunio o ciascuna morte produce effetti sulla famiglia del lavoratore interessato, sulle incombenze che gravano sui colleghi e sull’impegno delle compagnie di assicurazione: si pensi a un genitore che, dopo un incidente sul lavoro, non può prendersi cura della moglie e dei figli. Investire in sicurezza, dunque, consente alle imprese, alle famiglie e allo Stato di risparmiare i costi diretti e indiretti di ciascun incidente. In più, permette di conseguire vantaggi in termini di produttività e competitività. All’origine degli infortuni, infatti, ci sono carenze organizzative e gestionali che, se opportunamente corrette, aumentano le performance dei lavoratori. In altre parole, ordine, pulizia, organizzazione efficiente, macchinari moderni e formazione affidata a soggetti qualificati garantiscono benefici al business dell’impresa, rivelandosi un’opportunità di crescita. Non a caso c’è chi ha definito l’esborso per la sicurezza dei lavoratori “un investimento non solo etico, ma anche pragmatico in vista del successo a lungo termine delle aziende”. Di queste indicazioni dovrebbero tenere conto non solo le imprese, ma anche la politica. Anziché rinunciare a investimenti sulla sicurezza o perdersi in proposte destinate a rimanere tali, entrambe farebbero bene a ricordare che destinare risorse a quell’ambito conviene economicamente a tutti. Se non si vuole investire in sicurezza per proteggere i lavoratori e le loro famiglie da infortuni e morti bianche, insomma, lo si faccia almeno per risparmiare costi esorbitanti e aumentare la produttività del sistema Paese. IL MONDO DEL LAVORO
Autore: Raffaele Tovino 13 apr, 2024
Emanuele Orsini, il nuovo presidente di Confindustria, sa bene che, più degli investimenti, ora la priorità è assicurarsi lavoratori qualificati Gli investimenti? No, in tempi di Pnrr la vera sfida per le imprese è quella di trovare non tanto risorse quanto personale con le competenze necessarie per lavorare a nuovi prodotti in nuovi mercati. Emanuele Orsini, presidente designato di Confindustria, ne è certamente consapevole. Come è consapevole della necessità di una più forte istruzione terziaria professionalizzante, alternativa e parallela alle università tradizionali, e quindi di un sistema di Its che funzioni anche dopo che il Pnrr sarà stato archiviato e aiuti l’industria nazionale a essere maggiormente competitiva. Partiamo, come sempre, dai numeri. In Germania gli studenti inseriti nei canali professionalizzanti sono il 50% del totale, in Francia e in Svizzera il 30 e in Spagna il 10. In Italia, invece, registriamo la “miseria” di 30mila iscritti a fronte di un milione e mezzo di studenti universitari. Prima del Pnrr la situazione era persino meno incoraggiante, con soli 16mila iscritti e 20 Its in meno. I numeri attuali, dunque, dimostrano come il miliardo e mezzo di euro destinato dal Piano ai 146 Its abbia realizzato ciò che in precedenza non era nemmeno immaginabile. Può bastare? Ovviamente no, a meno che non si vogliano perdere le varie sfide alle quali il mercato chiama l’economia nazionale. La prima cosa da fare è rendere più solido il legame tra il mondo della scuola e l’istruzione terziaria professionalizzante. Il che significa istituire una direzione dedicata agli Its presso il Ministero dell’Istruzione, sperimentare la formula del 4+2 per legare le scuole tecniche e professionalizzanti agli stessi Its, fare in modo che questi ultimi si appoggino agli istituti superiori in modo da avere una fonte sicura di studenti. In questa prospettiva, è altrettanto importante rafforzare le economie locali. Molte regioni, infatti, non hanno grandi imprese o distretti industriali che possano guidare la fondazione degli Its e beneficiare della cosiddetta formazione su commissione. Ancora, in questo contesto, è indispensabile coinvolgere le associazioni professionali dei servizi e non solo quelle industriali visto che, al giorno d’oggi, molte specializzazioni riguardano proprio il settore dei servizi. Ma la prova forse più ardua comincerà tra due anni, dopo il 30 giugno 2026, termine entro il quale dovranno essere rendicontate tutte le spese coperte dal Pnrr. E si tratterà di una prova essenzialmente economica, nel senso che l’Italia dovrà trovare risorse adeguate per alimentare l’istruzione tecnica superiore. Sulle pagine del Foglio, Marco Leonardi ha fatto il conto della serva: oggi il sistema degli Its riceve 50 milioni l’anno dallo Stato e più di cento dalle Regioni; considerando necessari dieci corsi per 150 istituti e che ciascun corso costa approssimativamente 300mila euro, il finanziamento dovrà triplicare ad almeno 450 milioni l’anno. Lo Stato troverà queste risorse? Garantirà ai giovani italiani un’opzione professionalizzante di alto livello come le Fachhochschule tedesche, dove si formano lavoratori con capacità specifiche che rispondono alle reali esigenze delle imprese? Dimostrerà di voler tenere in piedi un sistema indispensabile per supportare l’industria nazionale e, in particolare, quella meridionale? È questa la sfida che la politica italiana dovrà vincere nei prossimi anni. Il Mondo del Lavoro
Autore: Raffaele Tovino 10 apr, 2024
Gli ultimi dati dell'Istat inchiodano l'Italia al ventunesimo posto nella classifica dei 27 Paesi dell'Unione Europea. Il tutto mentre le imprese hanno bisogno di personale sempre più specializzato Mentre le aziende hanno bisogno di personale sempre più specializzato (di mismath ne abbiamo parlato qui ), quello della formazione rimane un vero nodo irrisolto nel mondo del lavoro italiano. Secondo l’ Istat , il 31% (contro il 20,2% della media europea) dei giovani tra i 18 e 24 anni semplicemente la ignora. E se si allarga lo sguardo alla situazione generale, il tasso di partecipazione italiano è di ben 11 punti sotto la media europea: siamo ventunesimi nella classifica dei 27 Paesi della Ue, ben lontano dal 47% fissato tra gli obiettivi del Consiglio europeo per il 2025. Andando poi nello specifico: solo poco più di un terzo degli italiani d’età compresa tra 25 e 64 anni ha partecipato ad attività di istruzione e formazione: il 35,7% per l’esattezza. Dall’istituto di statistica, poi, si evince anche che, tra i giovani della fascia 18-21 anni, quasi il 21% non si forma e non lavora, percentuale che nel Mezzogiorno sale al 29,8%. Nel dettaglio, poi: il 4% della popolazione tra i 25-64 anni partecipa ad attività di apprendimento formale (corsi di istruzione e formazione scolastici, universitari, Afam, regionali e simili che rilasciano un titolo di studio o una qualifica professionale), contro il 6,3% della media europea. Il 34,1% partecipa ad attività di apprendimento informali (imparando da amici, parenti, colleghi, utilizzando libri, riviste specializzate, Pc, tablet, telefono) contro il 44% della media Ue. Ma, in Italia, anche il numero di ore dedicate complessivamente alla formazione è più basso rispetto alla media della Ue a 27 (133 e 144 rispettivamente). Questo, per effetto del minor numero di ore mediamente dedicate all’istruzione formale (405 rispetto a 512). Ci si domanda, allora: perché questa situazione? Una prima risposta potrebbe essere che, di fondo, manca una motivazione forte che spinga alla partecipazione: quasi l’80% dei 25-64enni che non si forma non ha interesse a farlo, mentre per gli altri i costi elevati rappresentano un ostacolo (nel 23,7% dei casi contro il 13,7% della media Ue a 27). Sempre nella fascia tra i 18 e i 24 anni, il tasso di partecipazione in attività formali si ferma al 49%, pari a ben 15,3 punti percentuali sotto la media europea. Se poi vogliamo confrontarci con la Germania, c’è davvero da imbarazzarsi: abbiamo accumulato 27 punti la differenza con i tedeschi che, non a caso, da tempo hanno sviluppato un sistema di formazione duale. Anche il tasso di partecipazione ad attività non formali (che si attesta al 42,2%) è comunque inferiore di 5,4 punti rispetto a quello europeo (e di ben 17,3 punti sotto la Germania). Last but not least: le attività di apprendimento formali sono quasi nulle dopo i 35 anni (solo l’1,3%) e anche quelle non formali crollano con l’uscita dal mercato del lavoro. In quest’ultimo caso, meno di un terzo degli italiani tra 35 e 64 anni partecipa ad attività di apprendimento non formale. Il Mondo del Lavoro
Autore: Raffaele Tovino 02 apr, 2024
Sette lavoratori italiani su dieci ricoprono ruoli potenzialmente esposti alla nuova tecnologia Su quali professioni l’intelligenza artificiale avrà l’impatto più forte? Molti esperti si sono posti questo interrogativo, visto che le nuove tecnologie renderanno obsoleti alcuni lavori, aumenteranno la domanda per altri e incideranno sulla produttività di altri ancora. E tutte le indagini sul tema hanno condotto allo stesso risultato: più a rischio sono le professioni in cui maggiore è l’utilizzo di abilità cognitive, con un grado di esposizione particolarmente elevato per le donne e per chi opera nel Centro-Nord. Secondo numerosi analisti, una professione che potrebbe subire le pesanti conseguenze dell’uso massivo dell’intelligenza artificiale è quella dell’avvocato. Quest’ultimo, infatti, ha tra i suoi compiti quello di ordinare le informazioni e, in tal senso, rischia di vedersi sostituito dalle nuove tecnologie. I legali, però, potrebbero essere in buona compagnia. Se si analizza la rilevazione della forza lavoro dell’Istat per il 2022, si nota come sette lavoratori italiani su dieci ricoprano ruoli potenzialmente esposti all’intelligenza artificiale: parliamo di 15 milioni di persone su un totale di oltre 21, con 7 milioni per i quali il rischio sarebbe particolarmente elevato. E i pericoli maggiori si riscontrano per i lavoratori con titoli di studio più elevati, cioè per chi opera nel settore dei servizi, nei vari comparti della pubblica amministrazione, nell’informazione e nella comunicazione, nelle attività finanziarie e assicurative, nell’istruzione e persino nella sanità e nei servizi sociali. E qui suona l’ulteriore campanello d’allarme: il rischio di essere travolti dall’intelligenza artificiale è ancora più alto per le donne che costituiscono il 37% della forza lavoro impiegata nei settori appena citati. Se si analizzano le regioni italiane, invece, emerge come il Centro e il Nord siano generalmente più esposti alla diffusione delle nuove tecnologie nel mondo del lavoro. È il caso soprattutto di Lazio e Lombardia, territori in cui è particolarmente consistente il peso di settori come assicurazioni e finanza, pubblica amministrazione, informazione e comunicazione. Senza dimenticare il comparto industriale dove la presenza di professioni legate a management, comunicazione, ricerca e sviluppo accresce i pericoli legati all’intelligenza artificiale. Per Lazio e Lombardia, dunque, l’esposizione è media rispettivamente nel 78,3 e nel 73,1% dei casi, mentre è alta nel 36,5 e nel 39,2; quanto a Puglia e Basilicata, i rischi sono medi rispettivamente nel 66,4 e nel 65,9% delle ipotesi, ma diventano alti nel 25 e nel 24. Che cosa vogliono dire questi dati, messi insieme in una interessante analisi condotta da Guido Baronio, Antonio Dalla Zuanna, Davide Dottori, Elena Gentil, Giovanni Linfante e Luca Mattei? Che l’intelligenza artificiale richiede la definizione e l’adozione di una strategia fin da subito. Magari i tempi saranno più lenti in Italia, che ha un tessuto economico caratterizzato da piccole e medie imprese e tanti lavoratori autonomi e da una bassa propensione all’innovazione, ma non c’è dubbio sul fatto che gli scenari descritti siano destinati a realizzarsi. Con una serie di conseguenze non solo in termini di diminuzione delle assunzioni per le figure professionali più esposte all’intelligenza artificiale, ma anche di andamento del reddito soprattutto nel settore dei servizi: alcuni lavoratori potrebbero risentire della diffusione delle nuove tecnologie attraverso una riduzione del salario, mentre altri potrebbero sfruttarle per incrementare la propria produttività e quindi la retribuzione. Ecco perché su questo tema è il caso di avviare una discussione seria e propositiva immediatamente. A meno che l’Italia, in particolare il Sud, non vogliano farsi cogliere impreparati da questa ennesima rivoluzione. Il Mondo del Lavoro
Autore: Raffaele Tovino 25 mar, 2024
L'informativa alla Camera della ministra Calderone ha tralasciato l'idea di insegnare la sicurezza a scuola C’è un elemento positivo e uno negativo nelle parole pronunciate dalla ministra Marina Calderone alla Camera a proposito delle misure volte a garantire la sicurezza dei luoghi di lavoro: un’informativa, quella del governo Meloni a Montecitorio, che arriva a poco più di un mese dal crollo di una trave in cemento nel cantiere dell’Esselunga a Firenze, costato la vita a ben cinque operai. Partiamo dall’elemento positivo. La ministra del Lavoro ha annunciato che lo stanziamento per il bonus malus dell’Inail salirà a 800 milioni. Significa che ci saranno più risorse a copertura della riduzione dei premi assicurativi per le aziende in cui si registri un calo degli infortuni o delle malattie. E questo è sicuramente un bene per almeno due motivi. Il primo: il governo Meloni dimostra di aver compreso come, per ridurre l’esorbitante numero di morti bianche, sia necessario seguire una logica incentivante più che punitiva. Il decreto Pnrr prevede sì un inasprimento delle sanzioni per le imprese che non rispettino le regole in materia di sicurezza e un rafforzamento del contingente ispettivo, ma anche misure volte a far sì che le imprese trovino più conveniente adeguarsi alla normativa. Il secondo aspetto che lascia ben sperare, poi, sta nel fatto che l’incremento dei fondi a copertura del bonus malus dell’Inal conferma l’impegno del Governo e dell’Istituto sul fronte della lotta a infortuni, malattie e morti sul lavoro. Il bando Isi, che copre fino al 65% delle spese sostenute dalle imprese per progetti specifici, nella sua ultima edizione prevede uno stanziamento di 508 milioni: “Si tratta dell’importo più alto mai stanziato nelle 14 edizioni dell’iniziativa”, ha sottolineato la ministra Calderone nell’aula di Montecitorio. D’altra parte, dal 2010 a oggi, l’Inail ha destinato oltre tre miliardi e mezzo a fondo perduto per progetti di miglioramento dei livelli di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Senza dimenticare l’annunciato aumento, da dieci a 50 milioni, degli investimenti in formazione per la crescita delle competenze dei lavoratori e degli operatori della sicurezza. Nell’informativa di Calderone, però, c’è un “non detto”. La ministra, che già all’indomani della tragedia di Firenze aveva evidenziato la necessità di insegnare la sicurezza sul lavoro nelle scuole, continua a sottolineare la necessità di individuare “tutte le forme più efficaci di intervento per contribuire alla formazione dei ragazzi”. La titolare del dicastero del lavoro, però, non circostanzia la proposta né fa chiarezza sulla sorte della proposta di legge per fare della sicurezza del lavoro una materia di insegnamento nelle scuole secondarie: un’idea lanciata nell’estate del 2023 da Walter Rizzetto, parlamentare di Fratelli d’Italia e presidente della Commissione Lavoro della Camera, e puntualmente rimasta lettera morta. Quella norma è ancora in cantiere? Qualcuno, all’interno del governo Meloni, si è posto il problema di assicurare la partecipazione attiva non solo degli studenti ma anche degli insegnanti e dei genitori, l’utilizzo di strumenti didattici innovativi ed efficaci, l’insegnamento basato soprattutto su casi di vita reale, il coinvolgimento dei giovani nella gestione della sicurezza degli istituti? Su questi aspetti la ministra glissa elegantemente. Su certe proposte, invece, di fare un passo avanti come è avvenuto su altri fronti. Il governo Meloni ha effettivamente previsto un aumento delle risorse, il rafforzamento degli ispettori e l’inasprimento delle sanzioni, ma continua a cincischiare sulla sicurezza del lavoro nelle scuole. Il tempo delle parole e delle proposte generiche, però, è finito: ce lo ricordano non solo i cinque morti di Firenze, ma anche e soprattutto quelle oltre mille vittime registrate in Italia da dicembre scorso a oggi, con Basilicata e Puglia distintesi per un’incidenza di infortuni mortali ben al di sopra della media nazionale.
Autore: Raffaele Tovino 21 mar, 2024
La retribuzione oraria è in calo: lo rivela Eurostat assegnandoci un -0,1% nell'ultimo trimestre del 2023 L’Italia è l’unico Paese dell’Unione Europea in cui la retribuzione oraria è in calo. Lo rileva Eurostat specificando che, da noi, nell’ultima parte del 2023, il costo orario del lavoro si è ridotto dello 0,1% mentre nel resto dell’Unione è aumentato del 4%. Stando sempre all’istituto di statistica, più precisamente, il costo del lavoro, nel quarto trimestre 2023, è aumentato del 3,4% nell’area dell’euro e del 4% nell’Ue rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente. Le due componenti principali del costo del lavoro sono i salari (e gli stipendi) e i costi non salariali. Nell’area euro i costi delle retribuzioni orarie e degli stipendi sono aumentati del 3,1%, mentre la componente non salariale è aumentata del 4,2%. Nella Ue i costi delle retribuzioni orarie e degli stipendi sono aumentati del 3,8% e la componente non salariale è aumentata del 4,6%. Ma quali sono i Paesi dove si sono registrati gli aumenti maggiori? Sono soprattutto quelli dell’Est. La Bulgaria, ad esempio, segna addirittura un +11,9% complessivo. Sta di fatto che deve recuperare ancora molto terreno: i Paesi in cui il costo del lavoro è maggiore tradizionalmente si trovano nell’area centro-settentrionale dell’Unione: Lussemburgo (50,7 euro all’ora), Danimarca (46,8) e Belgio (43,5). Sono invece minori in Ungheria (10,7), Romania (9,5) e proprio in Bulgaria (8,2). In Italia, l’unico Paese in controtendenza nell’ultimo scorcio del 2023, il costo medio del lavoro è pari a 29,4 euro all’ora, tutto sommato ancora in linea con la media europea.
Autore: Raffaele Tovino 18 mar, 2024
Perchè conviene a tutti abbandonare la cultura del "buttate le chiavi" e ripartire da un protocollo che finora ha clamorosamente fallito Partiamo immediatamente da un dato: il 68,7% dei detenuti che in carcere non lavora torna a delinquere. E questo valore tocca addirittura il 90% se si pensa che una parte dei reati commessi dai recidivi non viene mai scoperta. Quante sono, invece, le persone che, dopo aver lavorato regolarmente durante la detenzione, si mettono nuovamente sulla cattiva strada? Non più del 2%. Una statistica che andrebbe spiegata ai teorici del “buttiamo la chiave”, sempre pronti a sventolare cappi e manette, ma anche a quelle istituzioni che non sembrano comprendere l’importanza del lavoro in carcere. Un detenuto costretto a vivere in spazi risicati e il più delle volte fatiscenti, ad accontentarsi di due ore d’aria al giorno e a comunicare con i propri familiari dietro un vetro divisorio, finisce per incattivirsi e per interpretare la pena non come un’occasione ma solo ed esclusivamente come una punizione. I detenuti assunti da aziende che portano i propri reparti all’interno del carcere, invece, sono occupati per otto ore al giorno, guadagnano uno stipendio regolare, pagano le tasse, hanno la possibilità di sostenere economicamente la propria famiglia, sentendosi utili e allontanandosi dalla strada del malaffare. Questa differenza, peraltro piuttosto intuitiva, non sembra essere molto chiara in un Paese come l’Italia. Basta analizzare i numeri: su poco meno di 61mila detenuti, sono soltanto 700 quelli che lavorano in carcere e ai quali se ne aggiungono circa 1.700 che prestano servizio in regime di semilibertà. Lo scenario complessivo non è migliorato dopo l’approvazione del protocollo Cartabia-Colao che avrebbe dovuto portare all’inserimento di circa 10mila detenuti nel mondo del lavoro attraverso una serie di aziende disposte a insediare le rispettive attività nelle carceri. Nel solo settore della fibra ottica erano previste 1.553 assunzioni. Alla fine, i detenuti effettivamente ingaggiati sono stati tre. A ostacolare la svolta sono almeno due fattori. Il primo è quello al quale si è già accennato, cioè quella linea di pensiero secondo la quale la pena deve tradursi in una semplice punizione e nei confronti dei detenuti non bisogna usare alcuna pietà. È lo stesso orientamento che, in barba alla Costituzione e a una consolidata giurisprudenza, si oppone alla possibilità che i detenuti vengano effettivamente curati, che coltivino le proprie aspirazioni e la propria affettività, che possa essere insegnato loro un mestiere. Eppure tutti i dati statistici evidenziano come la pena, intesa come punizione, generi una spirale negativa. Il secondo ostacolo è la burocrazia. Emblematico il caso del carcere di Verona, dove per dieci anni hanno lavorato ben due aziende. Poi, a marzo 2023, il permesso è stato revocato perché alle imprese è stata riscontrata qualche irregolarità amministrativa. E lo Stato che cosa ha fatto? Anziché aiutare le aziende a mettersi in regola, le ha sbattute fuori. Con la conseguenza che oltre 150 detenuti sono stati costretti a tornare in cella, dall’oggi al domani, senza più un lavoro. E quindi non c’è da meravigliarsi se, a Verona, dall’inizio del 2024 si siano verificati già cinque suicidi. Sarebbe il caso, quindi, che le istituzioni consentissero alle aziende di operare in carcere e ai detenuti di lavorare. Per centrare l’obiettivo, però, occorre respingere, una volta per tutte, l’idea della galera come discarica sociale in cui “smaltire” persone plurisvantaggiate con dipendenza da alcol, droga e gioco o affette da problemi psichiatrici o i migranti giunti in Italia a bordo dei barconi. E, nello stesso tempo, bisognerebbe capire e far capire quanto il lavoro in carcere faccia bene non solo a chi sta dentro, ma anche a chi sta fuori.
Autore: Raffaele Tovino 14 mar, 2024
Gli ultimi dati Istat sull'occupazione inchiodano il Mezzogiono ben 21 punti sotto il Nord. Ma persiste anche un enorme divario di genere: lavorano il 53% delle donne e il 70% degli uomini Ci sono sempre più due Italie del lavoro. Nel Mezzogiorno, l‘occupazione si ferma al 48,2%, ben 21 punti in meno rispetto al Nord dove è al 69,4%. Ma non solo: le donne che lavorano sono il 53,4% contro il 70,8% degli uomini. Lo si evince dai dati Istat del quarto trimestre 2023 sebbene si chiuda con un bilancio positivo. Gli occupati, infatti, sono aumentati di 481 mila unità (+2,1%) arrivando a toccare quota 23 milioni e 580 mila. I disoccupati, invece, sono scesi di 81 mila unità (-4%), sotto la soglia dei 2 milioni. Il tutto, mentre si sono registrati 468 mila inattivi in meno. In questo modo, il tasso di occupazione è salito al 61,5% (+1,3 punti percentuali in un anno) e la disoccupazione è scesa al 7,7% (-0,4 punti). “Al di là dei numeri, le difficoltà permangono – ha commentato la ministra del Lavoro, Marina Calderone – Ma i nuovi dati dell’Istat ci confortano nella direzione intrapresa da questo governo a favore di lavoratori e imprese”. Se i dati generali sono positivi, come accennato, analizzando in dettaglio i dati del mercato del lavoro, emergono forti squilibri sia tra le varie aree del Paese che di genere. A livello territoriale, il Mezzogiorno che pure nel 2023 ha mostrato l’aumento più consistente del tasso di occupazione (+1,6 punti sul 2022, arrivando al 48,2%), resta staccato di ben 21 punti dal Nord. Il Settentrione, a sua volta, ha messo a segno una crescita di 1,3 punti toccando il 69,4% mentre il Centro è al 65,9% (+1,1 punti). Il tasso di disoccupazione nelle regioni meridionali (14%) è circa tre volte quello del Nord (4,6%) col Centro sopra al 6. Ma non è ancora tutto: il divario, fortissimo, riguarda anche le donne il cui tasso di occupazione a livello nazionale si ferma al 53,4% (ed al Sud crolla al 37,2) contro il 70,8% degli uomini. I casi di scuola, a tal proposito, si rintracciano a Verona e Messina: nella città scaligera, c’è un tasso di occupazione femminile del 70,1%. Sullo Stretto, invece, del 29,7%. Altro dato dissonante è quello che riguarda i Neet, i giovani che non studiano e non cercano lavoro: essi restano sopra quota 2,1 milioni, anche se nel 2023 sono diminuiti per il terzo anno consecutivo (-468 mila, -3,6%). Di positivo invece c’è il fatto che la crescita dell’occupazione l’anno passato ha interessato soprattutto i dipendenti a tempo indeterminato, con 491 mila unità in più (+3,3%) e gli indipendenti (+62 mila, +1,3%) tornati sopra i 5 milioni (dato Confesercenti ). Questo, mentre risultano in calo le forme di lavoro più precarie come i dipendenti a termine, con 73 mila unità in meno (-2,4%). In particolare, nel quarto trimestre 2023, gli occupati rispetto al trimestre precedente sono aumentati di 144 mila unità a seguito della crescita dei tempi indeterminati (+145 mila) e della sostanziale stabilità di dipendenti a termine e indipendenti. A trainare la crescita degli occupati, per effetto della situazione demografica, sono soprattutto gli over 50 il cui tasso di occupazione è cresciuto a quasi il doppio della velocità delle altre classi d’età (+2 punti contro +1,2). Ma in Italia come si trova il lavoro? L’Istat segnala anche questo: lo si fa usando i canali informali. La quota di chi si rivolge a parenti, amici e conoscenti, nel 2023, è aumentata raggiungendo il 76,6% (+1,2 punti).
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