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Autore: Raffaele Tovino 13 apr, 2024
Emanuele Orsini, il nuovo presidente di Confindustria, sa bene che, più degli investimenti, ora la priorità è assicurarsi lavoratori qualificati Gli investimenti? No, in tempi di Pnrr la vera sfida per le imprese è quella di trovare non tanto risorse quanto personale con le competenze necessarie per lavorare a nuovi prodotti in nuovi mercati. Emanuele Orsini, presidente designato di Confindustria, ne è certamente consapevole. Come è consapevole della necessità di una più forte istruzione terziaria professionalizzante, alternativa e parallela alle università tradizionali, e quindi di un sistema di Its che funzioni anche dopo che il Pnrr sarà stato archiviato e aiuti l’industria nazionale a essere maggiormente competitiva. Partiamo, come sempre, dai numeri. In Germania gli studenti inseriti nei canali professionalizzanti sono il 50% del totale, in Francia e in Svizzera il 30 e in Spagna il 10. In Italia, invece, registriamo la “miseria” di 30mila iscritti a fronte di un milione e mezzo di studenti universitari. Prima del Pnrr la situazione era persino meno incoraggiante, con soli 16mila iscritti e 20 Its in meno. I numeri attuali, dunque, dimostrano come il miliardo e mezzo di euro destinato dal Piano ai 146 Its abbia realizzato ciò che in precedenza non era nemmeno immaginabile. Può bastare? Ovviamente no, a meno che non si vogliano perdere le varie sfide alle quali il mercato chiama l’economia nazionale. La prima cosa da fare è rendere più solido il legame tra il mondo della scuola e l’istruzione terziaria professionalizzante. Il che significa istituire una direzione dedicata agli Its presso il Ministero dell’Istruzione, sperimentare la formula del 4+2 per legare le scuole tecniche e professionalizzanti agli stessi Its, fare in modo che questi ultimi si appoggino agli istituti superiori in modo da avere una fonte sicura di studenti. In questa prospettiva, è altrettanto importante rafforzare le economie locali. Molte regioni, infatti, non hanno grandi imprese o distretti industriali che possano guidare la fondazione degli Its e beneficiare della cosiddetta formazione su commissione. Ancora, in questo contesto, è indispensabile coinvolgere le associazioni professionali dei servizi e non solo quelle industriali visto che, al giorno d’oggi, molte specializzazioni riguardano proprio il settore dei servizi. Ma la prova forse più ardua comincerà tra due anni, dopo il 30 giugno 2026, termine entro il quale dovranno essere rendicontate tutte le spese coperte dal Pnrr. E si tratterà di una prova essenzialmente economica, nel senso che l’Italia dovrà trovare risorse adeguate per alimentare l’istruzione tecnica superiore. Sulle pagine del Foglio, Marco Leonardi ha fatto il conto della serva: oggi il sistema degli Its riceve 50 milioni l’anno dallo Stato e più di cento dalle Regioni; considerando necessari dieci corsi per 150 istituti e che ciascun corso costa approssimativamente 300mila euro, il finanziamento dovrà triplicare ad almeno 450 milioni l’anno. Lo Stato troverà queste risorse? Garantirà ai giovani italiani un’opzione professionalizzante di alto livello come le Fachhochschule tedesche, dove si formano lavoratori con capacità specifiche che rispondono alle reali esigenze delle imprese? Dimostrerà di voler tenere in piedi un sistema indispensabile per supportare l’industria nazionale e, in particolare, quella meridionale? È questa la sfida che la politica italiana dovrà vincere nei prossimi anni. Il Mondo del Lavoro
Autore: Raffaele Tovino 10 apr, 2024
Gli ultimi dati dell'Istat inchiodano l'Italia al ventunesimo posto nella classifica dei 27 Paesi dell'Unione Europea. Il tutto mentre le imprese hanno bisogno di personale sempre più specializzato Mentre le aziende hanno bisogno di personale sempre più specializzato (di mismath ne abbiamo parlato qui ), quello della formazione rimane un vero nodo irrisolto nel mondo del lavoro italiano. Secondo l’ Istat , il 31% (contro il 20,2% della media europea) dei giovani tra i 18 e 24 anni semplicemente la ignora. E se si allarga lo sguardo alla situazione generale, il tasso di partecipazione italiano è di ben 11 punti sotto la media europea: siamo ventunesimi nella classifica dei 27 Paesi della Ue, ben lontano dal 47% fissato tra gli obiettivi del Consiglio europeo per il 2025. Andando poi nello specifico: solo poco più di un terzo degli italiani d’età compresa tra 25 e 64 anni ha partecipato ad attività di istruzione e formazione: il 35,7% per l’esattezza. Dall’istituto di statistica, poi, si evince anche che, tra i giovani della fascia 18-21 anni, quasi il 21% non si forma e non lavora, percentuale che nel Mezzogiorno sale al 29,8%. Nel dettaglio, poi: il 4% della popolazione tra i 25-64 anni partecipa ad attività di apprendimento formale (corsi di istruzione e formazione scolastici, universitari, Afam, regionali e simili che rilasciano un titolo di studio o una qualifica professionale), contro il 6,3% della media europea. Il 34,1% partecipa ad attività di apprendimento informali (imparando da amici, parenti, colleghi, utilizzando libri, riviste specializzate, Pc, tablet, telefono) contro il 44% della media Ue. Ma, in Italia, anche il numero di ore dedicate complessivamente alla formazione è più basso rispetto alla media della Ue a 27 (133 e 144 rispettivamente). Questo, per effetto del minor numero di ore mediamente dedicate all’istruzione formale (405 rispetto a 512). Ci si domanda, allora: perché questa situazione? Una prima risposta potrebbe essere che, di fondo, manca una motivazione forte che spinga alla partecipazione: quasi l’80% dei 25-64enni che non si forma non ha interesse a farlo, mentre per gli altri i costi elevati rappresentano un ostacolo (nel 23,7% dei casi contro il 13,7% della media Ue a 27). Sempre nella fascia tra i 18 e i 24 anni, il tasso di partecipazione in attività formali si ferma al 49%, pari a ben 15,3 punti percentuali sotto la media europea. Se poi vogliamo confrontarci con la Germania, c’è davvero da imbarazzarsi: abbiamo accumulato 27 punti la differenza con i tedeschi che, non a caso, da tempo hanno sviluppato un sistema di formazione duale. Anche il tasso di partecipazione ad attività non formali (che si attesta al 42,2%) è comunque inferiore di 5,4 punti rispetto a quello europeo (e di ben 17,3 punti sotto la Germania). Last but not least: le attività di apprendimento formali sono quasi nulle dopo i 35 anni (solo l’1,3%) e anche quelle non formali crollano con l’uscita dal mercato del lavoro. In quest’ultimo caso, meno di un terzo degli italiani tra 35 e 64 anni partecipa ad attività di apprendimento non formale. Il Mondo del Lavoro
Autore: Raffaele Tovino 02 apr, 2024
Sette lavoratori italiani su dieci ricoprono ruoli potenzialmente esposti alla nuova tecnologia Su quali professioni l’intelligenza artificiale avrà l’impatto più forte? Molti esperti si sono posti questo interrogativo, visto che le nuove tecnologie renderanno obsoleti alcuni lavori, aumenteranno la domanda per altri e incideranno sulla produttività di altri ancora. E tutte le indagini sul tema hanno condotto allo stesso risultato: più a rischio sono le professioni in cui maggiore è l’utilizzo di abilità cognitive, con un grado di esposizione particolarmente elevato per le donne e per chi opera nel Centro-Nord. Secondo numerosi analisti, una professione che potrebbe subire le pesanti conseguenze dell’uso massivo dell’intelligenza artificiale è quella dell’avvocato. Quest’ultimo, infatti, ha tra i suoi compiti quello di ordinare le informazioni e, in tal senso, rischia di vedersi sostituito dalle nuove tecnologie. I legali, però, potrebbero essere in buona compagnia. Se si analizza la rilevazione della forza lavoro dell’Istat per il 2022, si nota come sette lavoratori italiani su dieci ricoprano ruoli potenzialmente esposti all’intelligenza artificiale: parliamo di 15 milioni di persone su un totale di oltre 21, con 7 milioni per i quali il rischio sarebbe particolarmente elevato. E i pericoli maggiori si riscontrano per i lavoratori con titoli di studio più elevati, cioè per chi opera nel settore dei servizi, nei vari comparti della pubblica amministrazione, nell’informazione e nella comunicazione, nelle attività finanziarie e assicurative, nell’istruzione e persino nella sanità e nei servizi sociali. E qui suona l’ulteriore campanello d’allarme: il rischio di essere travolti dall’intelligenza artificiale è ancora più alto per le donne che costituiscono il 37% della forza lavoro impiegata nei settori appena citati. Se si analizzano le regioni italiane, invece, emerge come il Centro e il Nord siano generalmente più esposti alla diffusione delle nuove tecnologie nel mondo del lavoro. È il caso soprattutto di Lazio e Lombardia, territori in cui è particolarmente consistente il peso di settori come assicurazioni e finanza, pubblica amministrazione, informazione e comunicazione. Senza dimenticare il comparto industriale dove la presenza di professioni legate a management, comunicazione, ricerca e sviluppo accresce i pericoli legati all’intelligenza artificiale. Per Lazio e Lombardia, dunque, l’esposizione è media rispettivamente nel 78,3 e nel 73,1% dei casi, mentre è alta nel 36,5 e nel 39,2; quanto a Puglia e Basilicata, i rischi sono medi rispettivamente nel 66,4 e nel 65,9% delle ipotesi, ma diventano alti nel 25 e nel 24. Che cosa vogliono dire questi dati, messi insieme in una interessante analisi condotta da Guido Baronio, Antonio Dalla Zuanna, Davide Dottori, Elena Gentil, Giovanni Linfante e Luca Mattei? Che l’intelligenza artificiale richiede la definizione e l’adozione di una strategia fin da subito. Magari i tempi saranno più lenti in Italia, che ha un tessuto economico caratterizzato da piccole e medie imprese e tanti lavoratori autonomi e da una bassa propensione all’innovazione, ma non c’è dubbio sul fatto che gli scenari descritti siano destinati a realizzarsi. Con una serie di conseguenze non solo in termini di diminuzione delle assunzioni per le figure professionali più esposte all’intelligenza artificiale, ma anche di andamento del reddito soprattutto nel settore dei servizi: alcuni lavoratori potrebbero risentire della diffusione delle nuove tecnologie attraverso una riduzione del salario, mentre altri potrebbero sfruttarle per incrementare la propria produttività e quindi la retribuzione. Ecco perché su questo tema è il caso di avviare una discussione seria e propositiva immediatamente. A meno che l’Italia, in particolare il Sud, non vogliano farsi cogliere impreparati da questa ennesima rivoluzione. Il Mondo del Lavoro
Autore: Raffaele Tovino 27 mar, 2024
Ieri incontro tra Governo e parti sociali: anche la patente a punti sembra destinata ad essere emendata Novità sul fronte delle nuove normative della sicurezza sul lavoro: Governo e maggioranza provano a calibrare meglio le nuove regole come quelle sancite dalla patente a punti e aprendo ai contratti più rappresentativi al posto dei contratti maggiormente applicati. Di questo si è discusso ieri nel corso di un incontro tecnico tra gli esperti di Ministero del Lavoro e parti sociali. In primis, si è presa in esame la possibilità di fare riferimento ai contratti comparativamente più rappresentativi al posto dei contratti maggiormente applicati. Possibile correzione, quindi, in vista sulla disposizione contenuta nel nuovo decreto Pnrr per frenare le esternalizzazioni di alcune attività al solo scopo di abbattere il costo del lavoro. Nell’attuale formulazione, la norma prevede che nei casi di appalto di opere o servizi è obbligatorio corrispondere ai lavoratori, anche di eventuali sub appaltatori, un trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dal “contratto collettivo nazionale e territoriale maggiormente applicato nel settore e per la zona il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto”. Quest’ultimo riferimento, pertanto, verrebbe modificato, e si introdurrebbe il richiamo ai “contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative”. È entrato nel merito, poi, il dialogo per l’applicazione della nuova patente a crediti: lo strumento debutterà strutturalmente, ma dopo la sua entrata in vigore sarà “attentamente monitorato” anche per valutare possibili correzioni. Per garantire la certezza del diritto, ad esempio, i crediti potranno essere tolti dopo sentenza definitiva salvo sospensione in via cautelare, tant’è che nei casi più gravi c’è il sequestro del cantiere. Nel meccanismo di recupero dei “punti”, poi, potrebbe entrare anche la formazione dei lavoratori. E altri emendamenti spingono anche per incrementare i punti iniziali della patente (oggi fissati in 30), e poter arrivare fino a 100 in base alla grandezza dell’azienda o ad altri criteri come, ad esempio, l’adozione di modelli di organizzazione e di gestione o un sistema di gestione per la salute e la sicurezza sul lavoro certificato. Un altro tema di discussione con le parti sociali, infine, ha riguardato le imprese in possesso di attestazione Soa: quest’ultime non sarebbero escluse dalla patente a crediti, ma potrebbero avere punteggi aggiuntivi. Le reazioni dei sindacati? In chiaro scuro, tant’è che il segretario generale della Fillea-Cgil , Alessandro Genovesi, ha confermato la mobilitazione e lo sciopero di 8 ore per il giorno 11 aprile.
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